mercoledì 30 gennaio 2008

Raccolta firme contro la demolizione del Teatro di Sagunto

Ricevo e pubblico su questo blog una lettera dello studio del prof. Giorgio Grassi.
















Stimati amici e professionisti del mondo della cultura e delle arti, Vi scriviamo per inviarvi un manifesto contro ciò che giudichiamo danneggi gravemente il mondo delle arti, dello spettacolo e soprattutto dell'architettura. Si tratta della demolizione delle opere di riabilitazione del Teatro Romano di Sagunto (Valencia), in Spagna. Questi lavori di restauro, effettuati da Giorgio Grassi e Manuel Portaceli nel 1993, godono di un grande prestigio internazionale, che però son stati vittime di una politicizzazione che ha portato il fatto fino ai tribunali di giustizia. Il risultato finale: una sentenza che obbliga a demolire i lavori realizzati entro 18 mesi.

Davanti a questa barbarie, intellettuali e artisti di tutta la Spagna hanno portato avanti un manifesto che speriamo faccia ragionare le autorità competenti. Ve lo spediamo aspettando il vostro accordo e il vostro aiuto per farlo circolare.

Si prega a chi abbia intenzione di aggiungersi al manifesto di scrivere una mail a questo indirizzo elettronico con il suo NOME E COGNOME INDIRIZZO e il suo NUMERO DI CARTA DI IDENTITÁ: manifiestoteatrosagunt@gmail.com

Grazie della vostra collaborazione


In riferimento alla sentenza della Corte Suprema della Spagna che ordina la demolizione dei lavori di restauro del Teatro Romano di Sagunto (Valencia), dopo 17 anni di contesa giudiziaria, politica e mediatica, i professionisti della cultura e delle arti e altri cittadini non possiamo rimanere in silenzio e sottoscriviamo il seguente

Manifesto teatro di Sagunto

MANIFESTO CONTRO LA DEMOLIZIONE

LA DEMOLIZIONE COSTITUISCE UN’ATTACCO CONTRO L’INDIPENDENZA E LA LIBERTÁ DEL MONDO DELLA CULTURA
Un’opera artistica puó piacere o meno, ma portarla nei tribunali stabilisce un preoccupante precedente rispetto della libertá di cui deve godere la cultura. Il confronto político non puó invadere lo spazio creativo che ad ogni costo deve preservare la propria autonomia. La creazione artistica deve restare al di lá delle battaglie politiche, poiché in caso contrario risulterebbe ferita a morte.

LA DEMOLIZIONE É UNA VENDETTA POLITICA CHE NON HA NULLA A VEDERE CON IL DIBATTITO ARCHITETTONICO
Il restauro del Teatro é stato utilizzato come arma politica e trasformato in fenomeno mediatico creando una falsa polemica al di lá del suo valore architettonico. Ció spiega come sia giunto in tribunale ed abbia protagonizzato tanti titoli sui giornali, anche se gode di un grande prestigio internazionale e sia oggetto di studio in universitá di tutta l’Europa. É stato approvato dal governo regionale valenziano negli 80, quando vi governava il PSPV-PSOE. Il PP valenziano, allora all’opposizione, fece bandiera contro il progetto, cosiccome certi settori della stampa che hanno insistito sulla polemica per piú di venti anni. La contesa giudiziaria fu indetta da un exdeputato regionale del PP nel 1993. Il frutto di una riflessione estética é stato sfortunatamente utilizzato per trarne vantaggi politici.

LA DEMOLIZIONE É UNO SPRECO E DANNEGGIA I CITTADINI E LE ARTI SCENICHE
Priva i cittadini, sopratutto quelli di Sagunto, di uno spazio che sta funzionando e che ospita iniziative culturali come il festival Sagunt a scena che arricchiscono la vita culturale ed economica della cittá e la sua societá. Significa che si chiude un’altro spazio scenico. I costi supereranno in molto i sei milioni di euro che pagheranno i cittadini e che non andranno ad altri capitoli molto piú necessari, fra di cui il definitivo compimento di questa stessa consolidata installazione culturale.

LA DEMOLIZIONE É UNA DIMOSTRAZIONE DI CODARDIA INTELLETTUALE
Durante secoli le rovine del Teatro hanno subito modifiche di ogni sorta senza alcun rigore scientifico. I diversi interventi, la maggior parte dei quali sono stati ricostruzioni senza alcun criterio, hanno interessato gran parte del Teatro, fin quando non é iniziato questo restauro. Il restauro é stato fatto sulla base di esaustivi studi archeologici ed é stato approvato dalle autoritá competetenti. Ormai figura in molte guide internazionali di architettura ed é stato finalista nei prestigiosi premi europei Mies Van der Rohe. É stata una accurata ricerca dei limiti dell’intervento architettonico su rovine antiche, superando la lettura romantica del monumento.

Tenendo conto delle tantissime opere illegali che sopravvivono e che non vengono demolite, si dovrebbe trovare tanto più per un’opera di questo valore una soluzione per impedire la demolizione del teatro e anzitutto AFFERMARE CON MOLTA CHIAREZZA CHE I PROFESSIONISTI DI TUTTO IL MONDO DELLA CULTURA E DELLE ARTI SI OPPONGONO CON TUTTA LA LORO FORZA A QUESTA DEMOLIZIONE.

domenica 27 gennaio 2008

Il giorno della Memoria - La Risiera

«La barbarie della Risiera è insieme l’eroismo della Risiera, mentre la coscienza civile si è costruita nella negazione della barbarie; ha sviluppato i suoi modelli eroici all’interno della storia umana, come predominio e signoreggiamento, come trionfo sulla barbarie. Comunque il pensiero e la coscienza moderna propongano il mito dell’eroismo e del trionfo della civiltà, i fatti storici connessi con la costruzione e il progresso di quelli (pensiero e coscienza) restano a fondamento della nostra civiltà ed esigono da noi un giudizio che, proprio perché deve riferirsi alla civiltà come sviluppo della coscienza, ammette solo una dimensione logica, costruttiva.
Di più, se quei fatti che vogliamo insieme cancellare e celebrare, oltre a essere nella storia della civiltà come prodotto dello spirito e del pensiero dell’uomo, solo elemento fisico di una città [Trieste], allora dobbiamo proporre a quei fatti un ruolo architettonico nella città»[1].
















Oggi non voglio commentare, solo ricordare, e invitarvi a studiare e visitare quella straordaria città multietnica che è, e che è stata, Trieste, e insieme, magari qualche ora, soffermatevi alla Riesiera, Monumento straordinario, di architettura, tra antico e moderno, tra finito e non finito, tra presente e momoria, tra civiltà e barbarie.

















[1] GIANUGO POLESELLO, Gianugo Polesello. Architetture 1960-1992, a cura di Mirko Zardini e con introduzione di Massimo Cacciari, Documenti di Architettura, Electa, Milano, 1992, p.28.

mercoledì 23 gennaio 2008

Sulla critica e sui progetti. Alcune considerazioni sull’Unione Manifatture.


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Dopo aver introdotto il tema dell’Unione Manifatture di Nerviano partendo da alcune considerazioni storiche, credo sia il momento per provare a iniziare a stilare alcune conclusioni, conclusioni che potranno servire come base per alcuni progetti accademici – ricordo che l’area dell’Unione Manifatture è stata scelta come caso studio da alcuni docenti della facoltà di Architettura Civile – e magari, spero, non solo accademiche – ben inteso, purtroppo non ho alcun incarico in merito –.

Innanzitutto ringrazio chi contribuisce in diverso modo a questo blog e in primo luogo tutti i visitatori – per fortuna solo molti –.

Vorrei iniziare ripartendo dalla questione introdotta da Sergio[1] della bontà architettonica o meno dell’ex centrale termica dell’Unione Manifatture, e dalla questione, che è centrale nello studio della storia dell’architettura, del legame tra progettista, e buon progettista, e opera, più o meno buona che essa sia. Non è una questione facile e forse nemmeno affrontabile in un blog, ma prima di affrontare la questione del progetto ci provo.

Sergio, riferendosi al progettista della ex centrale termica, commenta su questo blog «Architetto o ingegnere, poco rileva. Come credo che poco interessi se sia stato un “grande”». Un’affermazione che mi trova in parte d’accordo. Tuttavia per Carlos Martì Aris la critica architettonica deve partire dalla questione del progetto: «la critica che mi interessa è quella che si concentra sullo studio delle opere, cercando di scomporle per sapere come sono fatte, che si sofferma sui procedimenti sintattici utilizzati per costruirle»[2]. In La cèntina e l’arco Arìs sembra dare una prima risposta alla questione legando indissolubilmente l’opera al progettista e soprattutto la critica e la teoria all’opera e al progettista. È evidente che vi possono essere opere splendide e interessanti, progettate da sconosciuti, ma in realtà sono pochissime, sono opere minori – per questo non di minor importanza ovviamente – e spesso legate a una storia molto lontana e alla cultura contadina e popolare. È vero che nessuno conosce l’architetto del convento degli Olivetani di Nerviano, o della Villa Litta a Lainate, come dice Sergio, ma è vero anche che nessuno conosce l’architetto del Pantheon o della cattedrale di Siracusa, per dirne solo due, eppure ovviamente esse sono opere d’arte uniche, grandiose e centrali nella storia dell’architettura.

È però ormai riconosciuto che la grandezza – per dirla con Sergio – o meno di un progettista, architetto o ingegnere, deve essere misurata rispetto la sua opera, senza farne ovviamente una questione di quantità, cioè rispetto i progetti, gli scritti e, in ultimo, le realizzazioni. Certamente esistono figure di architetti moderni che hanno realizzato pochissimo e che insieme sono diventati figure centrali, su tutti forse Hilberseimer, Terragni, e nella contemporaneità Giorgio Grassi e Rem Koolhaas. Figure centrali perché centrale è la loro opera, punti di riferimento costante per gli altri architetti. Forse Obermeier, forse l'architetto della centrale termica, non è così centrale, ma prima di dare giudizi affettati proveremo a ricercare a fondo la sua opera.

Esistono due tipi di risposta progettuale e di architetti «quella di coloro che, rinunciando in partenza a qualsiasi riflessione sitematica, situano il progetto nell'ambito dell'esperienza personale irripetibile e isolata, e quella di quanti, nonostante le difficoltà, non abbandonano la pretesa di fondare la pratica su una teoria sostenuta da enunciati passibili di analisi e discussione»[3].

Vi è poi la questione difficile del rapporto tra conservazione e progetto, ma di questo proverò a parlarne più avanti, cercando di capire quanto fondamentale sia l’Unione Manifatture, nella sua complessità e non solo la centrale termica, per Nerviano non solo per ragioni storiche, non solo per ragioni di memoria, o di archeologia industriale, ma perché è un’area centrale e nevralgica per la città di Nerviano, quella del passato e quella del futuro.


[1] Pur trovandoci spesso su fronti opposti, ci conosciamo da anni e riconosco la scrittura, credo sia Sergio Parini, ex Sindaco di Nerviano per due legislature. Certamente una persona che vuole bene a Nerviano e che la vive in modo intenso e commosso. Colgo l'occasione per dire pubblicamente che mi lusinga averlo tra i lettori e soprattutto tra i "commentatori", spero anche tra gli "aiutanti" nella ricerca dei ragazzi.

[2] CARLOS MARTI' ARIS, La cèntina e l'arco. Pensiero, teoria, progetto in architettura, ed. italiana a cura di Simona Pierini, Christian Marinotti Edizioni, Milano, 2007, p.19.

[3] Ibidem, pp. 22-23.

martedì 22 gennaio 2008

1000 volte grazie

Mille volte grazie. Spero possa diventare uno spazio di discussione e di riflessione, un luogo dove fermarsi, dove confrontasi e dove insieme provare a progettare. Grazie.
A thousand time "Thank You" to the visitor over the three past weeks of 2008. I hope this can become a place to discuss and thinking over, to stop by and start conceiving, together. Thank You.

domenica 20 gennaio 2008

Pensiero e Azione

"[...] sarebbe augurabile il sorgere di una nuova formazione politica. Non essendo più legata formalmente al passato, essa sarebbe assai più sciolta da ogni obbligo di coerenza coi programmi e coi metodi antichi, e potrebbe più liberamente elaborare, sulla base delle straordinarie esperienze un programma rinnovatore".

CARLO ROSSELLI, Socialismo liberale, con introduzione e saggi critici di Norberto Bobbio, a cura di John Rosselli, Einaudi, Torino 1997, p. 142.

sabato 19 gennaio 2008

Le grandi manifatture e il medio Olona tra XIX e XX secolo [part.4]











Dopo questa prima fase, a partire dalla seconda metà del XIX secolo nella pianura asciutta a nord di Milano, lungo l’asse che collega storicamente la Lombardia con il nord Europa, tra Rho e Busto Arsizio le manifatture più piccole vennero unite a quelle più grandi e iniziò la seconda fase, quella dell’industrializzazione del sistema produttivo e della fondazione dei grandi cotonifici. Tra le industrie del legnanese la più importante fu certamente il Cotonificio fondato da Eugenio Cantoni[1], quindi le aziende di Antonio Bernocchi[2] e delle famiglie Dell’Acqua e Lampugnani. Tra la fine dell’Ottocento e la prima guerra mondiale gli antichi borghi agricoli dell’Altomilanese si trasformarono quasi completamente in paesi e città industriali, moltissimi contadini abbandonarono i campi per l’industria e il territorio per l’ennesima volta si trasformò in modo radicale.

Questi importanti cambiamenti interessarono anche Nerviano. Sul finire dell’ottocento infatti Felice Gajo[3], abbandonati gli studi come tanti altri coetanei per iniziare la carriera di industriale, sposò Ida Lampugnani e divenne imprenditore del cotonificio di famiglia. Gajo iniziò una grande politica di espansione e attorno al 1900 acquistò il cotonificio Gadda di Parabiago, trasformando la ditta in Manifatture Riunite. Poco dopo acquistò anche il Cotonificio Muggiani di Rho, che aveva sedi anche a Busto Arsizio, Trecate e Verbania, e ribattezzò l’intera impresa in Unione Manifatture e lungo l’Olona, tra Nerviano e Parabiago, fu fondata la nuova sede – oggi conosciuta a Nerviano anche come area ex Catisa –.

Nel 1949 i BBPR[4] progettarono e realizzarono a Nerviano un ampliamento dello Stabilimento tessile dell’Unione Manifatture. Del progetto è stata poi costruita solo una parte. La nuova costruzione incorporava una parte preesistente, degli inizi del XX secolo, ed era concepita per il ciclo completo della lavorazione del cotone. Accanto all'edificio dei BBPR fu costruita una nuova garnde centrale termica.

















[1] Eugenio Cantoni (Gallarate, 1820 - 1887) successe al padre Costanzo alla guida del Cotonificio Cantoni. Dopo lunghi soggiorni in Svizzera, Germania e Inghilterra tornato in Italia partecipò all’expo di Parigi del 1869 dove presentò un innovativo sistema di tintoria meccanico a ciclo continuo e vinse la medaglia d’oro. Nel 1872 il Cotonificio si trasformò in società per azioni controllata dalla famiglia Cantoni. Morì nel 1887.

[2] Antonio Bernocchi (Castellanza, 1859 – Milano, 1930) nacque da una famiglia povera non riuscì a diplomarsi. Verso il 1865 il padre fondò una piccola attività di candeggio a Legnano e a 15 anni iniziò a collaborare alla piccola attività. Nel 1898 la famiglia Bernocchi fondò a Legnano uno stabilimento tessile e nel 1935 la Società Antonio Bernocchi dopo la costruzione di altri stabilimenti, a Nerviano, Cerro Maggior, Angera, Besnate e Cogozzo, contava 3.800 telai meccanici e 135 unità di tintoria.

[3] Felice Gajo (Canegrate, 1861 – Parabiago, 1935) nacque da Natale Gajo e Amalia Taglioretti, una modesta famiglia di Canegrate. Non riuscì a diplomarsi e iniziò a lavorare come addetto alla contabilità, quindi come addetto commerciale. Sposando Ida Lampugnani abbandonò il lavoro per divenire socio del cognato Ing. Adolfo Lampugnani titolare di una ditta tessile in Villastanza, frazione di Parabiago. Le sue capacità imprenditoriali lo portarono a fondare nuove filiali a Nerviano, S. Ilario di Nerviano, S. Lorenzo di Parabiago, Cantalupo e Pogliano. Fu più volte sindaco di Parabiago tra il 1900 e il 1926, e Potestà dal 1927 al 1935, nel 1934 venne nominato Senatore del Regno.

[4] Studio di Architettura milanese fondato nel 1932 da Gian Luigi Banfi, Lodovico Barbiano di Belgiojoso, Enrico Peressutti ed Ernesto Nathan Rogers. Uno degli studi più importanti del XX secolo per intensità del lavoro, per l’importanza dei progetti e per la presenza di E.N. Rogers – architetto e critico tra i più importanti del novecento –.

mercoledì 16 gennaio 2008

L'Ex Unione Manifatture - La rivoluzione borghese [part.3]




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Dopo duecento anni di immobilismo, tra Sette e Ottocento la zona dell’altipiano e delle colline compresa tra il Ticino e l’Adda fu teatro di una vera rivoluzione, agraria e sociale a un tempo, rivoluzione in cui cambiarono radicalmente gli assetti proprietari e soprattutto quelli poderali, gli ordinamenti colturali e le forme insediative. Attori di questa nuova grande riforma furono la regina Maria Teresa d’Austria[1] e la nuova dirigenza austro-spagnola. Divisione del potere finanziario e amministrativo da quello giuridico, introduzione della scuola primaria obbligatoria, censimento della popolazione, e dell’edificato, e riforma del regime dei suoli e del catasto furono solo alcune delle riforme introdotte a Milano da Maria Teresa.

Crollati il sistema antico e il Sacro e Romano Impero sotto i colpi della rivoluzione francese, esportata a Milano da Napoleone, a partire dal XIX secolo il potere amministrativo passò saldamente nelle mani di una nuova classe sociale: la borghesia.
La grande proprietà terriera nobiliare era in disfacimento, e i beni della manomorta[2], e i fondi comuni, furono suddividi in appezzamenti più piccoli e furono messi all’asta. Fu una grande opportunità per la classe borghese e molte famiglie iscrissero il loro nome sui libri catastali, prima occupati unicamente dalle famiglie nobili. Le piccole attività manifatturiere e tessili, legate alla proprietà nobiliare, che si erano insediate già a partire dall’età sforzesca, si trasformarono quindi in attività imprenditoriali e l’acquisto di un appezzamento di terreno lungo l’Olona o il Seveso divenne garanzia certa di un’impressionante rivalutazione del capitale impegnato, trasformando la possibilità di comprare terreni in un gigantesco affare. Le attività manifatturiere inoltre, secondo Consonni[3], fornivano alla popolazione un maggior ritorno economico rispetto i normali contratti agrari e così si diffuse sempre più nel nord Milano una galassia di famiglie contadino-operaie, fenomeno che può iniziare a spiegare la struttura economica attuale fondata sulla micro impresa che caratterizza ancora oggi l’Altomilanese e soprattutto la Brianza.

[1] Maria Teresa d’Asburgo (Vienna, 13 maggio 1717 – 29 novembre 1780), figlia dell’imperatore del Sacro e Romano Impero Carlo VI di Borbone e Asburgo, arciduchessa d’Austria, regina d’Ungheria e Boemia, duchessa di Parma e Piacenza, prima Imperatrice – il Sacro e Romano Impero non poteva avere un imperatore donna – del Sacro e Romano Impero. Divise i poteri finanziario e amministrativo da quello giudiziario, accentrò l’amministrazione statale in sei dipartimenti e conferì ad un Consiglio di Stato il ruolo di coordinamento. Riformò completamente il catasto. Nel 1774 introdusse l’istruzione primaria obbligatoria, e finanziò le spese della pubblica istruzione con i beni requisiti alla Compagnia del Gesù, soppressa qualche tempo prima. Diminuì i poteri del clero: la censura infatti divenne statale, l’Inquisizione venne gradualmente abolita, e fu vietato di prendere i voti monastici prima del compimento dei 24 anni.

[2] Beni che, in quanto appartenenti a un ente, in genere ecclesiastico, non si trasmettono per successione ereditaria, e raramente per atto tra vivi, e sfuggono perciò alle relative imposizioni fiscali. Il termine ha assunto nei secoli diversi significati. Dopo la Rivoluzione francese e la Restaurazione si posero dei limiti alle esenzioni ecclesiastiche: in particolare in diversi stati europei fu istituita, tra XIX e XX secolo, una tassa di manomorta.

[3] C.f.r., GIANCARLO CONSONNI, GRAZIELLA TONON, Alle origini della metropoli contemporanea in Lombardia, in AA.VV., Lombardia. Il territorio, l’ambiente, il paesaggio, vol. IV, Electa, Milano, 1984.

sabato 12 gennaio 2008

L'ex Unione Manifatture - La prima rivoluzione [part.2]




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L'area dell'Altomilanese, o del Sempione, e la Brianza sono da sempre considerate comparti economici e produttivi tra i più straordinari d’Europa, insieme a Baviera, Catalogna, e al distretto di Manchester.

Ma quali furono le cause che scatenarono nel nord milanese la rivoluzione industriale tra XVIII e XIX secolo? E perché proprio le aree a nord di Milano e non quelle piemontesi, venete, centro italiche o del mezzogiorno? Perché proprio in queste zone nel XX secolo si fondarono gigantesche industrie manifatturiere, tessiture e cotonifici, con migliaia di operai ciascuna? Che cosa hanno lasciato in eredità quelle grandi fabbriche e come hanno trasformato il territorio? Proverò in queste pagine a chiarire il quadro economico e politico degli anni tra la fine del mondo antico e l’inizio di quello moderno, ma soprattutto cercherò di capire perché questa grande rivoluzione industriale si radicò in particolare lungo l’asse del Sempione, e lungo l’Olona, e quali conseguenze drammatiche ha avuto e continua a avere oggi sul territorio.

A partire dagli anni della signoria di Ludovico il Moro, alla fine del Quattrocento, gli anni che possono essere definiti della pace sforzesca, fino ai primi decenni del Cinquecento, il milanese, già fondato sulle preesistenti strutture golasecchiane, insubri e romane, andò costruendosi attorno al sistema insediativo e lavorativo delle Cascine-Ville. Questi piccoli borghi rurali, formati da agglomerati di case coloniche disposte a corte e qualche casa da nobile collegata alle prime, rappresentavano la conquista economica e sociale della nuova nobiltà sforzesca, non più strettamente legata al sistema feudale.
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In quegli anni furono introdotte molte culture nuove, la più importante fu indubbiamente il gelso – il moro o il morone lombardo, dal soprannome, pare, di Ludovico Sforza – e vennero inoltre perfezionati gli apparati di irrigazione della pianura legati al completamento dei Navigli e alla sistemazione di alcuni corsi d’acqua naturali, tra cui l’Olona.

Lungo il fiume finalmente, non più teatro di scontri e guerre, si insediarono una serie incredibile di piccole manifatture e di nuovi e moderni mulini.

giovedì 10 gennaio 2008

Aree Dismesse - L'ex Unione Manifatture


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Nei programmi, in quasi in tutti i programmi, delle coalizioni presentatesi alle ultime elezioni amministrative nel Comune di Nerviano c’era un tema fondamentale, il recupero delle aree dismesse. In particolare il recupero di due aree dismesse: l'ex Ipi System e l’area Ex Unione Manifatture.
Ho già avuto modo di scrivere su questo blog (vedi Parco Extraurbano - Bilancio 1, 31 dicembre 2007) che alla fine degli anni ottanta fu calata sul territorio una scellerata variante di PRG, una vera tragedia, che ha dotato il territorio comunale di un numero spropositato di servizi terziari legati alla grande e media distribuzione e di una serie di piccole palazzine. «Per contro nei primi anni del XXI secolo fu approvato un piano fortemente e giustamente conservativo. Con indubbio atto di coraggio le opposizioni alla variante precedente approvarono un piano che azzerava le speculazioni fatte sul territorio, ma, insieme, un piano che portava con se alcune gravi mancanze e carenze progettuali.
Sostanzialmente il PRG odierno è quindi un piano certamente scrupoloso e attento alla salvaguardia del territorio ma troppo carente e quasi assente progettualmente. [...] penso [in particolare] alla mancanza di un pensiero sulle aree dismesse, considerate dal PRG ancora come aree produttive». Oggi, quindi, dopo un periodo durato una decina d’anni di giusto conservatorismo è giunto il momento di pensare, tutti insieme, alla Nerviano del futuro, e al recupero della più importante delle aree dismesse di Nerviano, un’area centrale, insieme urbana e extraurbana, per sua natura sia nervianese che parabiaghese.
Un progetto quindi da fare con molta, molta cautela, non pensando solo ai problemi di oggi – recupero centrale termica – e non pensando unicamente a Nerviano, perché quell’area non è solo di Nerviano.

Di quest’area se ne stanno occupando, anche troppo discretamente, due gruppi nervianesi, di cui io sono a conoscenza, i Laboratori Democratici e il Collettivo Oltre il Ponte, ma anche una parte della Facoltà di Architettura di Milano. In particolare l’area dell’Ex Unione Manifatture, nella sua complessità, è stata scelta come uno dei tre temi di progetto nel corso di Laurea Specialistica – gli altri due sono due aree dismesse a Galliate (No) e Milano, zona cimitero Monumentale – del Prof. Massimo Fortis, attuale direttore del Dipartimento di Progettazione, e la centrale termica è divenuta oggetto di un progetto di Restauro dello stesso gruppo di studenti – gruppo di studenti coordinato da me e da altri giovani docenti –.

Proverò quindi nei prossimi giorni a ripartire dalla storia di quel luogo, dalla storia delle grandi fabbriche sorte lungo l’asse del Sempione, la Manchester d’Italia come veniva chiamata nei primi anni del XX secolo, la storia della Cantoni, della Bernocchi, della Muggiani, e infine dell’Unione Manifatture, la storia di un territorio.

martedì 8 gennaio 2008

Dei concorsi 2

Pregnana Milanese, piccolo comune della cintura milanese, ha una popolazione di circa 6100 abitanti. Anche a Pregnana è stato bandito un concorso per la Riqualificazione del Municipio.
Pubblicato in questi giorni la consegna dei lavori è a marzo. Sbaglio o anche a Nerviano c'è un Municipio, Ex, da ristrutturare?

Ora però non diciamo che la giunta (una giunta di cui condivido moltissime intelligenze) è appena stata eletta perché tra non molto saranno due anni e in due anni ce ne sono di occasioni per fare concorsi. E invece si farà un concorso, pare, su una piazza di un borgo antico e complicato, senza ascoltare nessun consiglio e quindi senza sapere che i progetti sulle piazze sono solitamente quelli che richiedono una maggiore conoscenza del luogo e quelli dove c'è meno "spazio" per l'architettura, quindi spesso i concorsi per le piazze sono quelli in cui la partecipazione è minima.

"Il Comune di Pregnana Milanese bandisce un concorso di idee per la riqualificazione del Palazzo Comunale, dell’area pubblica antistante l’edificio comunale prospiciente su piazza della Libertà e dell’area retrostante l’edificio adibita a deposito mezzi".

Ricognizione sugli studi della Forma Urbana di Milano. Milano romana


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Probabilmente la città di Milano nel III e II sec. a.C. non era dotata di vere e proprie mura urbane e la difesa doveva essere costituita da una palizzata in legno, come racconta Cesare descrivendo gli assedi dei villaggi gallici.

La fase di espansione edilizia della città romana, che prese avvio tra la fine del II e l’inizio del I secolo a.C., per effetto di una maggiore prosperità economica, non consistette solo in un ampliamento dell’abitato, fino a un’estensione di circa 80 ettari, ma modificò profondamente l’assetto idrogeologico del sito, con interventi di canalizzazione delle acque e di bonifica del terreno, troppo umido per l’eccessiva altezza della falda, in alcune zone affiorante. La Mediolanum romana è quindi il risultato di un lento e lungo processo di adeguamento e miglioramento realizzato su strutture anteriori.

A una fase avanzata e ormai conclusiva del processo di romanizzazione del municipium sono da ricondurre gli interventi che più vistosamente hanno segnato il tessuto urbano: la costruzione della prima cinta muraria, la realizzazione del foro e la creazione dell’asse stradale verso Roma, corrispondente all’attuale corso di Porta Romana. Con l’erezione delle mura la città modificò di nuovo il suo rapporto con la campagna e con i corsi d’acqua che la lambivano. Il perimetro della prima città murata non risultava avere forma regolare, ma di quadrilatero fortemente smussato a occidente, probabilmente lungo il lato dove scorreva il Piccolo Seveso, che probabilmente già serviva da fossato prima della costruzione del grande circo imperiale, come dimostrerebbero i ritrovamenti lungo le vie Filodrammatici e Marino, a nord est, Paolo da Cannobio, a sud est, e San Vito e Disciplini, a sud.

Nel baricentro della città divenuta municipio si costruì il foro, punto di arrivo del programma di trasformazione dell’oppidum celtico intrapreso dalla classe dirigente e innescato dalla Lex Iulia. Nel periodo compreso tra il conferimento dello status di colonia latina e l’acquisizione della cittadinanza romana, il nuovo impianto urbanistico, il cosiddetto Piano del Foro, si sovrappose al tessuto urbano precedente. Un vero e proprio progetto di riqualificazione urbana andava inserendosi nel tessuto della città, regolarizzandola e razionalizzandola.

Il foro di Milano, in base agli studi archeologici condotti sull’area, risulterebbe avere avuto pianta rettangolare con rapporto dimensionale di 1:2,9 (dimensione di metri 55x160), non consono all’immagine vitruviana del foro ma analogo a quella dei fori di Verona, Brescia, Pompei. Si ignorano infine le posizioni di importanti edifici repubblicani come la Basilica, la Curia e il Capitolium.


Testo estrapolato da FABIO PRAVETTONI, Archeologia e forma urbana. La zona del Monastero Maggiore a Milano, relatore prof. Daniele Vitale, Tesi di dottorato in Composizione architettonica, XVIIi ciclo, Politecnico di Milano, 2006.

lunedì 7 gennaio 2008

Ricognizione sugli studi della Forma Urbana di Milano. Dalla civiltà di Golasecca alla Milano Insubre

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La questione della città romana a Milano è inseparabile da quella del rapporto con l’insediamento preesistente. La lettura del modo in cui tale insediamento ha condizionato o compromesso il piano romano, è alla base di interpretazioni assai diverse. Le due ipotesi sulla forma urbis Mediolani, proposte negli anni cinquanta del novecento prima da De Marchi, poi da de Finetti, Calderini, Caniggia e Mirabella Roberti, sembrano oggi parzialmente superate, alla luce degli importanti studi condotti, a partire dagli anni ’80, principalmente da Arslan, Caporusso, Mori e Rossignani. È quindi necessaria una revisione critica anche a partire dagli scavi effettuati negli ultimi anni del XX secolo e dalle recenti indagini stratigrafiche condotte in vari punti della città[1].

Mentre per de Finetti le ragioni della forma pentagonale di Milano sono da ricercare nell’accorpamento di due insediamenti ben distinti, i recenti studi della Soprintendenza Archeologica della Lombardia, durante gli scavi di via Moneta, nei pressi dell’antico foro e nel cortile di Palazzo Reale, hanno dimostrato, anche grazie alle nuove tecniche capaci di individuare le tracce in negativo – tagli, asportazioni, buchi di pali, materiali utilizzati – la continuità di occupazione della zona centrale di Milano a partire dal V secolo a.C. Inoltre una serie di ritrovamenti riferibili al V sec. a.C., la cosiddetta età di Golasecca III A, in corrispondenza delle isoipse 119, 120,121 metri sul livello del mare, comprese tra l’attuale piazza del Duomo, San Satiro, il Cordusio, via Meravigli e via Moneta, accrediterebbero l’ipotesi che gli Insubri fondarono il loro principale centro presso un preesistente villaggio golasecchiano. Si trattava di una zona asciutta, priva dei caratteristici depositi di anfore che servivano come drenaggi delle zone umide, sulla quale probabilmente convergevano tutte le direttrici commerciali protostoriche. Sembra ragionevole quindi supporre una sorta di primo insediamento organizzato a ventaglio e aperto verso gli altri centri golasecchiani di Gallarate, Varese, Como e Bergamo.

La parte dell’insediamento compresa grosso modo tra piazza del Duomo, via Meravigli e via Valpetrosa, per una superficie di 12 ettari, corrisponderebbe al nucleo protostorico, che per la maggiore antichità delle unità stratigrafiche rinvenute dagli archeologi e per l’accumulo dei diversi livelli di occupazione doveva sorgere su un dosso. Su questo dosso e su un precedente insediamento del V sec. a.C.[2] si era sviluppato l’oppidum celtico, poi razionalizzato, trasformato, ampliato, romanizzato.


[1] Cfr. A. C. MORI, La zona del foro e l’ubanistica di Mediolanum alla luce dei recenti scavi, in AA.VV., Felix Temporis Reparatio, Edizioni ET, Milano, 1992, pp. 27-44;
[2] R. C. DE MARINIS, Nouvelles données sur le commerce entre le monde méditeranéen et l’Italie septentrionale du VIIème au Vème siècle avant J.C., in AA.VV., Les princes celtes et la Méditerranée, Rencontres de l’École du Louvre, Paris, 1988, pp. 45-56.

domenica 6 gennaio 2008

Un partito veramente democratico

«Le frasche secche sono indispensabili per far bruciare il ceppo, non in sé e per sé. Solo il ceppo, bruciando, modifica l’ambiente freddo in caldo»[1] ma il ceppo solo non può accendersi senza frasche piccole e leggere.

Così penso che nel nuovo partito, se davvero vorrà essere democratico, fin dall’inizio al ceppo si devono unire le frasche secche, ai partiti la società civile, la gente che viene dalle associazioni e da esperienze diverse, azionisti e realisti, universitari e operai, ma non si può aspettare oltre, bisogna farlo subito e in ogni occasione. Altrimenti il ceppo non si accenderà e mai potrà riscaldare l’ambiente.

[1] ANTONIO GRAMSCI, Le opere. La prima antologia di tutti gli scritti, a cura di Antonio Santucci, Editori Riuniti, Roma, 1997, p. 207.

venerdì 4 gennaio 2008

Dei concorsi

Comunicazione veloce.
Vedi mio post “bilancio 2”, dicembre 2007. Il concorso per la biblioteca di Legnano è stato bandito in pochi mesi, pubblicato a inizio dicembre si concluderà a fine gennaio. Con questo concorso, anche super pagato, bisogna ammetterlo – solitamente i comuni danno 1000, 2000, 3000 euro al vincitore –, il Comune di Legnano si assicura, senza impegni, almeno un progetto preliminare per la nuova biblioteca. Il tutto in 3 mesi circa.
Della nuova scuola di Nerviano ancora nessuna traccia.

Un parco Archeologico per Milano

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Spesso nelle città gli architetti si trovano a dover progettare in situazioni complesse, dense di vincoli, e tuttavia non è la frequenza di questa situazione ciò che mi «ha spinto ad assumerla come terreno di lavoro: è invece la sua natura, il suo carattere didattico, il suo aspetto teorico. Vogliamo lavorare sopra e accanto a dei manufatti, perché pensiamo di poter apprendere in modo diretto dalla loro realtà e dalla loro storia, traendone in modo concreto gli elementi del mestiere»[1]. Perché gli edifici antichi portano con se, dentro il loro corpo e la loro forma, un sapere e un’esperienza antichi con cui l’architetto deve confrontarsi e da cui il progetto può ripartire.

Ridefinire la forma degli scavi archeologici, anche in una città apparentemente poco archeologica come Milano, capire dove proseguirli, e se essi possono attraverso la forma evocare una nuova città, è compito difficile che dovrebbe coinvolgere sia gli archeologi che gli architetti. La continuità nei confronti della rovina non può essere ottenuta con interventi chirurgici, o con logiche di «musealizzazione» dei siti archeologici, ma approfondendo le possibilità evocative del locus.
L’area del circo romano e dell’ex Monastero Maggiore hanno grande valore monumentale, ma sono anche aree di sicura vocazione museale e luoghi di un possibile progetto. La scuola di architettura di Milano si è confrontata spesso sul tema dell’antico circo, con una serie di progetti che tendevano a rendere riconoscibili i frammenti nella loro autonomia e a ridare valore a una trama nascosta della città. E ridefinendo la forma degli scavi e attuando una politica seria su questi e sui ritrovamenti, che quotidianamente si fanno a Milano, arrivare a strutturare una sorta di museo archeologico aperto, di luogo della memoria della città antica, dove la rovina non va vista come punto di arrivo, ma come punto di partenza del progetto. Un progetto dove il manufatto antico da un lato può apparire «come una forma perduta, finita, caduta appunto in rovina, isolata, estranea alla vita quotidiana, dall’altro lascia apparire invece con evidenza la sapienza costruttiva, la coerenza dei mezzi, delle tecniche, dei materiali, esercitata, ecc., il suo essere cioè ancora, “lezione di architettura”»[2].

[1] DANIELE VITALE, ANGELO TORRICELLI, Progettare un edificio accanto ad un altro, testi e bibliografia 1, Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, Milano, 1994, p. 5.

[2] GIORGIO GRASSI, Un parere sul restauro, in GIORGIO GRASSI, I progetti, le opere e gli scritti, introduzione di Juan José Lahuerta, a cura di Giovanna Crespi e Simona Pierini, Documenti di Architettura, Electa, Milano, 1996, p. 406.

Testo estrapolato da FABIO PRAVETTONI, Archeologia e forma urbana. La zona del Monastero Maggiore a Milano, relatore prof. Daniele Vitale, Tesi di dottorato in Composizione architettonica, XVIIi ciclo, Politecnico di Milano, 2006.

Il progetto in alto è di Maria Grazia Lo Castro, Paolo Lombardi e Federico Panfili, Progetto per l’ampliamento del Museo Archeologico. Fronte e sezione su via Ansperto, tesi di Laurea relatore prof. G.Grassi.

giovedì 3 gennaio 2008

Insubri e Romani. La romanizzazione degli Insubri

Uno dei grandi insegnamenti di Marx, figura centrale nel pensiero occidentale moderno al di la di qualsiasi rilettura sociopolitica odierna, fu l’abbinare lo studio della storia allo studio dell’economica e la storia, a partire da Marx, venne studiata in modo realista. Spesso invece parti antagoniste in un dato momento si sono rifatte a momenti e situazioni storiche precedenti distorcendo la realtà dei fatti accaduti e interpretando troppo le posizioni a proprio vantaggio, o per svantaggio degli altri. È il caso dei lombardi contrapposti agli spagnoli, di manzoniana memoria, finemente utilizzati dalla società borghese di inizio ottocento come metafora della contrapposizione tra le esigenze di indipendenza dal Sacro e Romano Impero di una parte della società lombarda; ma è il caso anche dei romani contrapposti ai barbari longobardi, dove i romani, latini e italici rappresentavano l’italianità soccombente al “tremendo giogo” austriaco e barbaro. È il caso, meno fine, della contrapposizione tra gli Insubri autoctoni, milanesi e lombardi doc, contro i romani usurpatori di bossiana memoria.

È certo che «il primo contatto tra Insubri e Romani fu di carattere militare. Non sappiamo [invece] se gli Insubri all’inizio del IV sec. a.C. parteciparono a una campagna contro Roma, poiché Livio solo la popolazione dei Senoni; ma di sicuro parteciparono con i Boi alla grande coalizione a cui aderirono diverse popolazioni celtiche, che affrontò Roma e che fu sconfitta prima a Talamone nel 225 a.C. e poi a Casteggio nel 222 a.C. Dopo la vittoria le legioni romane dei consoli Cornelio Scipione e Marco Claudio Marcello puntarono su Mediolanum e la conquistarono. I Romani imposero agli Insubri un duro trattato di pace, lasciando tuttavia la città e i territori circostanti alla popolazione celtica.
[...] Il nuovo assetto della regione Cisalpina fu rovesciato dalla seconda guerra punica e dal passaggio in pianura Padana delle truppe di Annibale. [...] Nel 194 a.C. gli Insubri, dopo essere stati nuovamente sconfitti nei pressi di Mediolanum dal proconsole Lucio Valerio Flacco, deposero definitivamente le armi».

È certo però che dopo lo scontro iniziale i romani concessero da subito «una certa autonomia alle popolazioni locali [...]. Il patto con Roma non intaccava l’integrità territoriale e patrimoniale e l’autonomia giuridica delle città transpadane, contemplava invece l’obbligo di fornire soldati all’esercito romano. Soldati che possono essere considerati uno dei più potenti veicoli di romanizzazione della società indigena nord-italica [...]».


Il processo di romanizzazione degli insubri è stato quindi un processo molto lento e complesso, un processo di «assorbimento di modelli culturali e architettonici centro-italici, laziali e campani», un processo accelerato certamente dall’arruolamento nelle truppe romane di molti soldati celtici, che riportarono poi nelle terre d’origine idee e modi di vita propri dei cittadini romani. Questa ipotesi oggi è confermata dalla documentazione archeologica: la forte componente ellenistico-romana, presente nei corredi tombali insubri databili tra la fine del II e l’inizio del I sec. a.C., testimonia infatti con grande evidenza la volontà delle aristocrazie insubri di aderire a modelli culturali laziali, campani e romani.

La prima immagine raffigura la Stele dei Vettii, della
Seconda metà I sec. a.C. – prima metà I sec. d.C. (lastra tombale della famiglia Vettii), la seconda è invece una foto di un manifesto del Museo di Storia della città di Barcelona.
Il testo tra virgolette è stato tratto da FABIO PRAVETTONI, Archeologia e forma urbana.
La zona del Monastero Maggiore a Milano
, , relatore prof. Daniele Vitale, Tesi di dottorato in Composizione architettonica, XVIIi ciclo, Politecnico di Milano, 2006.

Dei movimenti spontanei e di chi è responsabile

"Trascurare e peggio disprezzare i movimenti così detti spontanei, cioè rinunziare a dar loro una direzione consapevole, ad elevarli ad un piano superiore inserendoli nella politica, può avere spesso conseguenze molto serie e gravi. Avviene quasi sempre che a un movimento "spontaneo" delle classi subalterne si accompagna un movimento reazionario della classe dominante [...]. Tra le cause efficienti di questi colpi di Stato è da porre la rinunzia dei gruppi responsabili a dare direzione consapevole ai moti spontanei e a farli diventare quindi un fattore politico positivo".



ANTONIO GRAMSCI, Le opere. La prima antologia di tutti gli scritti, a cura di Antonio Santucci, Editori Riuniti, Roma, 1997, p. 222.