venerdì 28 agosto 2009

Gara di Mountain Bike - Festa Garbatola




















MTB IN I BUSCH DE LA GARBATOLA
DOMENICA 30 AGOSTO

RITROVO: ORE 16.00 - Oratorio di Garbatola (Frazione di Nerviano)

ISCRIZIONI: si ricevono fino a 15’ prima della partenza
PARTENZA: ORE 17.30 in via Gorizia, ingresso Oratorio

PERCORSO: 1 GIRO DA 5 KM PER I BAMBINI 4 GIRI PER GLI ADULTI

Alla 5^ edizione , è un evento abbinato alla Festa Granda di Garbatola 29.08 -08.09.2008

iscrizione 3 euro con piccolo riconoscimento, 5 euro con maglietta

POSSIBILITA’ DI FARE LA DOCCIA

A fine gara accurato servizio gastronomico con sala ristorante, con specialità della tradizione lombarda, e ballo liscio.
per info: http://www.garbatola.it - info@garbatola.it - tel. 340.8918499 (fabio)

ps. nei prossimi giorni sul blog trovere giorno per giorno gli appuntamenti con la Festa Granda di Garbatola

martedì 25 agosto 2009

La donna mediterranea










Premetto che non voglio passare per razzista leghista o simili stereotipi italiani; chi mi conosce sa che amo la multiculturalità, amo le città aperte, ma salde nella propria memoria, come Barcelona, Berlino, ecc.

Ma iniziamo dalla percezione che si ha all’estero dell’Italia. Un paese bello, strano, ricco, e soprattutto amministrato da gente incapace e ricca di contraddizioni. Un paese dove la Chiesa ha ancora un grande potere, interviene con forza in molte decisioni politiche, ma non interviene direttamente in casi come quello scoppiato quest’estate sulle feste sarde del presidente del consiglio. Un paese spesso descritto in modo ironico proprio usando le frasi ridicole dei suoi leader: «la guerra a las fuerzas del mal [...]. Para ello se comprometiò a movilizar al “Ejército del Bien”» [1]. Un paese assediato da conflitti interni che lo uccidono, la mafia, la camorra, ecc.

Poi ovviamente ci sono i luoghi comuni, la pasta, la musica popolare – ovviamente non i Subsonica ma Toto Cutugno e l’italiano vero –, ecc.

In questi giorni mi è capitato di vedere un bel servizio della televisione spagnola sulle donne e il mediterraneo, sulle donne del mediterraneo.

Il servizio poneva l’accento sulle contiguità e le somiglianze tra le culture mediterranee e in particolare sulla somiglianza, non fisica ma anche culturale, delle donne marocchine, tunisine, spagnole e italiane. La donna italiana intervistata, una cantante siciliana, descriveva la condizione della donna meridionale, spesso chiusa in una realtà dorata, descriveva la condizione delle donne di mafia. Le donne mediterranee, diceva il servizio, si somigliano molto.

Non voglio passare come al solito per quello che vuole sempre dire il contrario, anzi dico che ho condiviso molto il servizio, tuttavia alcune cose mi sarebbe piaciuto puntualizzarle.

La relazione tra donne e potere, tra donne e famiglia, non è così facilmente classificabile in uno stato che presenta al suo interno, pur essendo molto piccolo, così tante differenze e contraddizioni; o meglio è assolutamente vero che in Italia si sono verificate nei secoli condizioni storiche talmente complesse da generare poi condizioni sociali molto diverse tra le varie regioni-stato di cui era composta la penisola italica, non solo tra nord e sud, ma anche tra stato e stato.

Se Palermo, Napoli, Roma, anche Genova, sono certamente mediterranee, possiamo dire lo stesso di Venezia o Trieste? Sono città mediterranee o adriatiche? C’è una differenza tra l’Adriatico veneziano e l’Adriatico pugliese?[2]. E le città della pianura Padana, aperte verso l’adriatico, lontanissimo, e circondate da montagne, possono essere considerate città mediterranee?

(continua)


[1] RAQUEL GARCIA’, Berlusconi anuncia un plan contra el crimen y la Mafia, in El Pais, domenica 16 agosto 2009, p.8.
[2] Non dimentichiamo che ci fu un Doge nel XVI secolo che voleva trasferire la capitale all’inizio del “golfo adriatico”. Trasferire Venezia a Istanbul, cioè trasferire le strutture politiche e amministrative veneziane, voleva dire ridurre l’isolamento veneziano, che iniziava a compromettere la potenza della Serenissima Repubblica, ma voleva anche dire esporla a troppi pericoli e non venne mai spostata.

lunedì 24 agosto 2009

Notizia Ansa - Università: Politecnio conferma corso ma professori senza paga

Il corso di progettazione architettonica ha successo,
l'universita' lo riconferma ma ai docenti a contratto che da due
anni lo coordinano viene chiesto di far lezione gratis. Accade
al Politecnico di Milano, facolta' di Architettura civile, e a
denunciare il caso sono i due professori-architetti invitati a
insegnare ''per la gloria''. Lo fanno in una lettera indirizzata
al Capo dello Stato e al ministro dell'Istruzione.''L'anno
scorso il corso e' stato retribuito, quest'anno per il medesimo
corso, come da normativa vigente, e' stato emesso un bando
pubblico che non prevedeva una remunerazione'', replica il
rettore del Politecnico Giulio Ballio

lunedì 10 agosto 2009

Milano e il Ducale, il Ducale e Milano (part. 2)















È chiaro a tutti che quella sulle bandiere regionali, come quella delle ronde, come quella delle lingue e altre trovate del genere, in quest’italietta estiva sono appunto trovate che partono da temi serissimi ma che poi vengono utilizzate purtroppo come boutade agostane per distrarre gli italiani da altre questioni che normalmente avrebbero portato alla fine politica di un uomo – possibile che il presidente del consiglio l’abbia passata liscia anche questa volta? Non venite a raccontarmi della separazione tra la vita privata e quella pubblica –. È altresì vero che questa nostra triste classe politica spesso ha anche trasformato in disegni di legge, e peggio in legge, questi mal di pancia estivi di alcuni nostri leader; quindi forse ha un suo senso occuparsi di temi così strani, importanti ma secondari, anche prima che inizi il vero e proprio iter legislativo.

Innanzitutto la questione dei confini territoriali delle Regioni. Perché le Regioni italiane abbiano gli attuali confini rimane un mistero: alcune sono il frutto dell’accorpamento di zone un tempo divise, come la Lombardia, le Marche, l’Abruzzo, l’Emilia Romagna, altre invece facevano parte di stati più grandi, come il Friuli e il Veneto, la Valle d’Aosta e il Piemonte, l’Umbria, il Lazio e parte delle Marche, la Campania, la Puglia, ecc.
Prendo a esempio il caso che conosco meglio: la Lombardia.

A dire Lombardia si fa presto ma, «quand’anche non si voglia assumere il termine in tutta la sua estensione medioevale, ci sarebbe da fare posto a Bergamo, a Cremona, a Mantova ecc., nomi dietro i quali ciascuno vede subito profilarsi situazioni e vicende da studiare, almeno sino a un certo discrimine, come proprie di ambienti dotati di caratteristiche distinte» [1], quando si dice Lombardia – non me ne vogliano gli amici bergamaschi, bresciani, comaschi, ecc., «si dice Milano: l’estensione geografica della Lombardia, infatti, dopo il trattato di Utrecht [2] è assai inferiore ai confini dell’attuale regione amministrativa» [3], a oriente, verso la Repubblica di San Marco, la Lombardia si arrestava alle sponde dell’Adda, mentre a settentrione il Canton Ticino, da sempre territorio milanese, entra a far parte della confederazione elvetica solo nel XVI secolo.

Vi è poi la questione dei confini culturali. La Lombardia, potremmo dire il milanese, è sempre stata terra di confine, terra bifronte «una parte verso la Toscana, l’altra verso la Francia» [4]: l’economia e gli scambi commerciali con il mondo d’oltralpe, con l’Impero, la Francia e la Germania, e l’umanesimo verso la Toscana – almeno da Petrarca in poi –. Ovviamente questo aspetto è presente anche nei territori della bergamasca e del bresciano, ma in forma molto minore e diversa, questi infatti sono, almeno dal XVI secolo, più attratti da Venezia: in letteratura il bergamasco Arlecchino va a lavorare nella capitale Venezia, non a Milano; la Loggia di Brescia e altre architetture bresciane, penso a Sirmione, Desenzano, Salò, ecc, come quelle di Zara e Spalato, richiamano direttamente Venezia e i caratteri formali delle città venete, non certamente quelle milanesi.

Perché quindi ostinarsi a chiamare Lombardia un territorio così variegato? Perché soprattutto dovremmo innamorarci di una bandiera – la rosa camuna bianca su fondo verde, simbolo che tutto sommato è anche tra i migliori rispetto quelli delle altre regioni – che non sentiamo nostra ne culturalmente ne storicamente se non per averla sul tesserino sanitario o per vederla sulle macchine della polizia locale? Qualcuno risponderà sommariamente che in Baviera, in Catalogna, ecc., le bandiere regionali sono parificate, o quasi, a quella nazionale; già ma quelle bandiere non sono state inventate di corsa vent’anni fa, sono radicate nella storia come il Ducale milanese, o il Leone di San Marco, o il giglio borbonico, non certo come il picchio delle Marche, la rosa della Lombardia, o il non so cosa della Campania.

Perché cari politici italiani, di destra e di sinistra, di finta destra e di finta sinistra, non la smettete quindi di affrontare temi così importanti e difficili, temi che non siete in grado di affrontare, e non iniziate a prendere più sul serio invece altri temi, altrettanto importanti, drammaticamente importanti, come un presidente che va a troie e un mare di troie che pur di arrivare al successo o a una presunta felicità dimenticano lo studio, la fatica, la vita vera e cercano di farsi un presidente?
Buone vacanze.

[1] DANTE ISELLA, La cultura letteraria lombarda, in idem, I lombardi in rivolta. Da Carlo Maria Maggi, a Carlo Emilio Gadda, Einaudi, Torino, 1984, p. 4.
[2] Il Trattato di Utrecht comprende una serie di trattati di pace firmati a Utrecht nel marzo e aprile del 1713, per cercare di porre fine alla guerra di successione spagnola, cioè la guerra che si scatenò tra le potenze del Sacro Romano Impero, la Francia e l’Inghilterra morto Carlo II re di Spagna per contendersi la corona.
Dopo il trattato i francesi continuarono la guerra contro l'imperatore Carlo VI e il Sacro Romano Impero fino al 1714 con i Trattati di Rastatt e di Baden, mentre il Sacro Romano Impero e la Spagna, ora divenuta borbonica, rimasero in guerra fino al 1720.
[2]
DANTE ISELLA, La cultura letteraria lombarda.., p. 4.
[3] Ibid., p. 5.

giovedì 6 agosto 2009

Milano e il Ducale, il Ducale e Milano




















In un estate che ormai scivola via tra un presidente che va a troie e troie che vanno in cerca del loro presidente, ecco che un gruppo di varesotti che si spaccia portavoce di un popolo, quelli che a Roma chiamano i Lumbard, che di Lumbard o che di heimat lumbard ormai hanno ben poco, ti tirano fuori l’annosa, direi ormai secolare, questione della bandiera italiana e delle bandiere nazionali.

Premesso che non amo particolarmente la nostra bandiera nazionale, devo riconoscere che se letta in amicale contrapposizione con il tricolore transalpino, se letta cioè con un occhio di riguardo a quel gemellaggio franco italiano ora dimenticato, o per sempre cancellato, a causa di un campo verde segnato di bianco, lungo circa 100 metri, e di ventidue uomini che giocano al forbal, allora quel simbolo trova di colpo una grande forza. Il Tricolore italiano è oggi infatti simbolo di libertà e ha alle sue spalle una lunga storia fatta di lotte, di grandi uomini e purtroppo di grandi assassini che hanno ucciso migliaia, milioni, di giovani mandati allo sbaraglio nelle guerre più assurde.

Il 15 maggio 1796 «il generale Bonaparte entrò in Milano, a capo di quella giovane armata che aveva varcato allora il ponte di Lodi e appreso al mondo che dopo tanti secoli Cesare e Alessandro avevano un successore. I prodigi di ardimento e di genio a cui l’Italia assistette nel giro di qualche mese ridestarono un popolo addormentato», così inizia la Certosa di Parma di Stendhal [1]. «Ma per chi, quel mattino del maggio 1796, si trovò sul corso di Porta Romana a veder entrare in città quell’accozzaglia di briganti condotta alla vittoria da un pallido generale ventisettenne, quell’ingresso non rimase uno dei soliti spettacoli a cui la folla era chiamata, di tanto in tanto, a fungere da contorno, pronta a scomparire subito dopo, nella laboriosa ubbedienza, come tutti gli altri elementi di una coreografia posticcia: fu la ventata dell’eccezione, l’improvviso balenare di un’avventura da vivere come un altro destino» [2]. Quello fu l’inizio del tricolore, del tricolore e della sua storia di rivoluzione. La rivoluzione borghese dei giovani parigini entrati a Milano, le assurde lotte indipendentistiche, savoiarde, le vite di milioni di giovani mandati al macello nelle guerre mondiali, la Resistenza, tutte storie di lotta, di passione e di rivoluzione, tutte storie accumunate da quel vecchio tricolore franco-italico. Solo se letto in questa chiave il tricolore adottato dalla Repubblica Cisalpina, quando l’Italia ancora non esisteva e la Lombardia di oggi neppure, ha un grandissimo valore, rivoluzionario e progressista.

Premesso questo, è di questi giorni la notizia che i moderni Lumbard seguaci del Bossi vogliono equiparare, mi pare di avere capito così, il tricolore alle moderne bandiere regionali. «Ma davvero i cuori degli italiani vibrano così tanto al garrire dei vessilli regionali da giustificare la loro promozione nella Carta?» [3]. Tranne la bandiera del Veneto, copia mal riuscita del nobile simbolo della Serenissima Repubblica di Venezia, o tranne quella di stampo savoiardo del Piemonte, o ancora quella della Sardegna, che cosa proviamo di fronte a quelle bandiere? Cosa prova un marchigiano di fronte quella M e quel picchio stilizzati, frettolosamente adottati nel 1995, o cosa prova un laziale di fronte quell’intricato groviglio di simboli, o ancora un emiliano e un romagnolo – che già sono stati forzatamente messi insieme dalla legge moderna – cosa provano di fronte quella brutta bandiera? E infine cosa prova un milanese di fronte alla rosa camuna?

Certamente quello del regionalismo, o delle lingue preunitarie, nazionali, o dell’unità dello stato italiano, sono temi difficili che non si possono banalizzare o semplificare, o peggio ridicolizzare, come sempre si è tentato di fare. Tomasi di Lampedusa, Isella, Trilussa, sono oggi dimenticati e le lingue nazionali sono state banalizzate e declassate dal fascismo alla stregua di dialetti. Ma torniamo alla bandiera. Prendiamo ad esempio la moderna Lombardia. Essa è il risultato almeno dell’unione di uno stato, quello Milanese, e di una parte di stato, quello veneziano. Il confine è da sempre, o quasi sempre, l’Adda. Milano ha da secoli due bandiere. Una di lotta e una di rappresentanza: quella di lotta, la croce di San Giorgio, condivisa con altre città cattoliche, penso a Barcellona, Genova, ecc, è oggi divenuta il simbolo di una squadra di calcio, la F.C. Internazionale; quella di rappresentanza, il Ducale con il suo biscione azzurro e l’aquila imperiale su fondo giallo – a ricordare il legame non con Roma e il papa ma con il Sacro e Romano Imperatore germanico – vengono venduti tra una salamella e un fazzoletto verde alle feste padane della Lega Nord, ma sarebbe meglio chiamarle feste prealpine, perché della cultura fluviale padana hanno ben poco.
Perché in questo stato senza memoria troppo preso da altre vicende, spesso a sfondo erotico, il Ducale, l’antica, unica e ultima bandiera dello Stato di Milano è declassato a oggetto di culto per giovani militanti e la rosa camuna, che credo sia una stilizzazione di un’incisione rupestre della Val Camonica (Brescia), di recente già territorio della Repubblica Serenissima, è invece innalzata a simbolo regionale, ora anche nazionale?

(continua)

[1] Stendhal (pseudonimo di Henri-Marie Beyle) fu scrittore francese nato a Grenoble, il 23 gennaio 1783 e morto a Parigi, 23 marzo 1842. Tra le sue opere è certamente da ricordare Roma, Napoli e Firenze, (titolo originario Rome, Naples et Florence), un diario di viaggio scritto durante il periodo di congedo che ebbe in Italia alla caduta dell'imperatore (era ufficiale di cavalleria prussiano a Berlino). Stendhal soggiornò a Milano per sette anni e la descrisse in quel libro in modo sapiente, al pari, forse meglio, di Manzoni.
[2] DANTE ISELLA, Milano Capitale nelle vedute di G. Gallinari, in idem, I lombardi in rivolta. Da Carlo Maria Maggi, a Carlo Emilio Gadda, Einaudi, Torino, 1984, p. 107.
[3] ALESSANDRO LONGO, Tra Petaso e rosa camusa quell’Italia dei campanili a caccia di simboli e jingle, in La Repubblica, 6 agosto 2009, p. 3.

martedì 4 agosto 2009

Globale e Locale













È una malattia l’attaccamento alla propria terra?

In un’intervista pubblicata sul libro No Global, Franco Gesualdi, credo a ragione, sosteneva che la scoperta recente, dopo il crollo del sistema dei blocchi contrapposti, di potere produrre a basso prezzo in altre zone del mondo, prima l’est, poi il sud del mondo, in realtà dove «non ci sono vincoli legislativi a tutela dei lavoratori, come avviene nei Paesi occidentali, e senza realtà sindacali forti»[1] ha portato negli ultimi anni a un impressionante accelerazione del fenomeno della globalizzazione. Se a questo ci si aggiunge l’odierna incredibile facilità con cui ci spostiamo, impensabile fino a qualche anno fa, o l’impressionante progresso delle metodologie di comunicazione, si comprende benissimo come sia cambiato negli ultimi vent’anni il nostro pianeta. Un cambiamento radicale. Un cambiamento che però spesso sconcerta, destabilizza e sradica. Un cambiamento che ha avuto, e che sta avendo, le sue gravi conseguenze non solo economiche ma anche sociali. Una nuova realtà che spesso ci lascia come spaesati abitanti di comunità che non hanno quasi più un’anima.

Si dorme in paesi che quasi non si conoscono. Si esce di casa presto, si lavora in grandi metropoli, in cui ci si ferma sino all’ora dell’aperitivo, per poi far ritorno alle nostre case, sempre più individuali, cioè sempre meno multifamiliari e collettive, noi sempre più individualisti.

Io, e come me molti altri giovani, non ci sto e anzi credo che il compito di questa nostra strana generazione – quella late modern generation di cui ho scritto qualche tempo fa – non sarà quello di ricostruire la nazione, o quel che ne resta, dal punto di vista politico ed economico, quello spetterà ad un’altra generazione, la prossima, ma quello di ricostruire una cultura nuova, una cultura che parta non dalla globalizzazione ma dalla comunità locale. Ovviamente non lo dico con ottuso spirito di chiusura e proprio contro questo spirito, anticipando una possibile tragedia – lo spirito leghista è già abbastanza tragico, ma vedo che purtroppo ci sono gravi margini di peggioramento –, credo che dovremmo ripartire dalla comunità locale, capirla e sentirci radicati in essa, per poi confrontarci con i vicini, senza paure, senza veli, senza pregiudizi, per integrarci e per progettare un mondo nuovo.

Se quella precedente è stata la generazione che ha cancellato, trasformandole in favole per turisti – laddove si è deciso che alcune comunità meritavano di essere classificate come turistiche –, le tradizioni, le lingue locali, gli usi e i costumi, in favore di un globalismo spesso vuoto e senz’anima, un gigante dai piedi d’argilla, la nostra deve essere la generazione della memoria.
Occuparsi di una vecchia chiesina scomparsa, o cercare di rivitalizzare un paese dormitorio, o ancora provare a giocare con le proprie tradizioni e la propria cultura rilanciandola anche attraverso feste, cene e concerti, credo sia un atto dovuto.

Ci sono serate, come quella di oggi, in cui il temporale verso il tramonto, correndo stanco dal Piemonte alla Bergamasca, ha appena lasciato l’alto milanese. L’odore dell’acqua è ancora forte, i campi sono verdi e una leggera brezza soffia da nord ovest. In queste sere succede che il sole torna a far capolino dopo qualche ora e lo fa scendendo veloce dietro il Monte Rosa e verso la Francia. Gh’è ‘l su che’l guarda indrè – c’è il sole che guarda indietro, che ti saluta – diceva mia nonna. Il temporale è appena passato, si intravede il sereno, ma le nuvole ancora incombono grigie e pesanti, come solo in Scozia o in pianura Padana, sulle nostre teste. È un momento straordinario, fatto di sogno e di realtà. È un momento di speranza. È una di quelle sere in cui capisco che dopo anni di distruzione di un territorio è giunta l’ora di prendersene cura. Sono sere in cui si capisce che dopo anni in cui si sono accantonati lingua, cultura, tradizioni, è tempo di riprenderle, non in senso nostalgico, di un passato migliore ormai perso, ma in senso, realista, progressista e innovatore. Sono sere in cui si capisce che l’attaccamento a queste terre è una malattia.

[1] AA.VV., No Global. Gli inganni della globalizzazione sulla povertà, sull’ambiente e sul debito, a cura di D.Demichelis, A. Ferrai, M. Masto, L. Scalettari, Zelig Editore, Milano, 2001, p. 65.