martedì 7 dicembre 2010

Un pensiero sullo stato e la chiesa



Sono anni difficili, anni in cui una classe dirigente vecchia, non solo anagraficamente, stenta a lasciare il potere che ha consolidato attorno ad essa, in tutti i campi, dalle Amministrazioni pubbliche alle Università alle strutture private. Anni in cui la famiglia, unico motore e unico fattore reale che ci sta tenendo fuori dalla porta la crisi economica che ha già coinvolto Grecia, Portogallo, Irlanda, è in crisi. Anni in cui i giovani anno paura di fare figli, di sposarsi, anni in cui i figli guadagnano meno dei padri. Anni in cui i politici non fanno altro che litigare in televisione senza mai, ma dico mai, legiferare e governare. Sono anni in cui i vari Alfano, La Russa, Rutelli, Bindi, Letta, ecc, ecc, sembrano più preoccupati di curare la loro immagine, intesa in senso molto largo, negli studi televisivi piuttosto che fare il loro dovere di legislatori, di controllori, di parlamentari, di amministratori. Sono gli anni in cui il cardinal Martini o il cardinal Tettamanzi vengono definiti rossi perché dicono loro cose più di sinistra, o di buon senso, che non i politici, a tutti i livelli soprattutto quelli di sinistra – che dovrebbero invece non avere paura di dire le cose che dicono i cardinali milanesi –.

Proprio di questo vorrei in questo giorno di S. Ambrogio trattare oggi.

Non è la prima volta che accade e non sarà nemmeno l’ultima: in Italia, ma diciamo pure in Europa occidentale, la Chiesa non è vero che invade il campo, e lo dice uno di sinistra che da tempo, ormai non so quanto, vota sempre più a sinistra – tanto si sta trasformando e sta andando verso una moderatismo schifoso e ripugnante la sinistra italiana nata dalle macerie del PCI –, finiamola con queste palle! La Chiesa non invade il campo, la Chiesa occupa un vuoto, il vuoto politico lasciato da questa inutile e arrogante classe politica, di quarantenni arrivisti e inutili e di sessantenni attaccati alla poltrona.
Non è la prima volta che accade, dicevo. Citerò due, tra i tanti, esempi illustri, esempi milanesi, l’esempio di due vescovi: Ambrogio e Carlo Borromeo.
Ambrogio venne eletto vescovo in un momento di grande crisi, in cui l’imperatore, che risiedeva a Milano, era incapace di governare la città e le tensioni che in essa si scatenavano. Con la sua sapienza il presule riempì uno spazio, un vuoto. E con la sua presenza e la sua forza giunse persino a condannare l’imperatore che a Ravenna aveva compiuto un eccidio incredibile. In altri tempi e con altre persone, con altri politici, più forti, da un lato e con altre figure ecclesiastiche dall’altro, quella condanna non avrebbe portato a niente – sono i primi anni del cristianesimo non sono di certo gli anni della Chiesa potente e militare – e invece l’imperatore tornò in ginocchio davanti al vescovo, riconobbe la sua superiorità e solo così continuò a governare. Badate bene che, ripeto, Ambrogio si limitò a denunciare una strage di innocenti, non disse niente di assurdo o di sconvolgente. Semplicemente la classe politica di quel tempo, impersonificata in questo mio dall’imperatore, era tanto corrotta da non capire che uccidere migliaia di innocenti in uno stadio solo per sedare una piccola rivolta cittadina era una cosa gravissima.

Carlo Borromeo invece giunse a Milano in anni in cui la situazione economica, politica e morale era incredibilmente degradata. La classe politica milanese dopo la sconfitta sforzesca non si era ancora ripresa e da circa cinquant’anni non riusciva letteralmente ad amministrare la città e il Ducato – un decreto dell’imperatore sancì anche la totale dipendenza del Ducato dal volere imperiale, cancellando anni di lotte indipendentiste –. I governatori e i militari imperiali, spagnoli, erano poi troppo intenti a mantenere il loro ruolo e il loro prestigio e spesso erano anche in combutta con le famiglie aristocratiche locali. In questo quadro un uomo piccolo ma duro e severo, intransigente, letteralmente ribaltò la città e il Ducato trasformandolo completamente e attuando una vera e propria riforma morale e urbanistica. Mi chiedo era Carlo che invadeva o erano gli amministratori che non erano capaci di amministrare? – pensate che solo pochi anni prima furono invece le truppe imperiali a invadere Roma, che per la seconda volta nella sua storia millenaria veniva violata –.

Mi verrebbe da dire che anche nel mio borgo di recente fu un parroco intelligente e intransigente a portare alla ribalta temi come quello della casa, che l’allora amministrazione non riusciva nemmeno ad affrontare, ma invece, nel giorno di S.Ambrogio, volevo ringraziare il cardinal Dionigi Tettamanzi per la parole che ha usato ieri nel messaggio alla città. Ieri infatti mentre ricordava agli auttuali amministratori l’importanza del dialogo multiculturale, in una città che sempre più odia e sempre meno accoglie, mentre ricordava quanta fatica facciano, stante anche gli ultimi tagli statali, le associazioni no-profit e quanto bene, per contro, esse facciano occupandosi di cose di cui le amministrazioni stesse non si occupano, è arrivato anche a parlare di piani regolatori e PGT.
Già! Ora che un cardinale parli di urbanistica non fa sorridere, fa piangere. Da architetto e da uomo di sinistra dovrei incazzarmi per questa invasione di campo o dovrei incazzarmi perché i politici e gli architetti non sono capaci di avere un’uguale attenzione, oggi indispensabile, verso le cose, verso la situazione economica, famigliare, ecc, di chi amministrano? Forse il cardinale, e il suo staff, la Chiesa, parlano di più con la gente e stanno di più in mezzo alla gente? Ma che razza di politici abbiamo, di destra e di sinistra, se a nessuno viene in mente che oggi non servono altre carte e altra burocrazia – il piano di Nerviano è fatto da non so quante carte, spesso inutili –, carte di analisi, carte di controanalisi, carte di progetti che mai si realizzeranno, ecc, bisogna fare solamente una carta dei cantieri sociali, dei movimenti. Una carta dei cantieri delle persone che lavorano per gli altri, per gli immigrati, per i poveri, di questo ha bisogno Milano, “di questo hanno bisogno le nostre città non di fare nuove carte di PGT” (card. Dionigi Tettamanzi, 6/12/10 ore 18:45). Una carta cioè dove vengano riportate tutte le associazioni che operano sul territorio, una carta che ricordi agli amministratori l’importanza del dialogo non solo in chiave elettorale con le associazioni stesse o i gruppi di volontariato sociale, che ricordi agli Amministratori di ascoltare quali sono le loro esigenze, le esigenze di chi è a contatto con la gente e non con la burocrazia – non di mettere concerti il giorno in cui una di queste fa un concerto...che ovviamente è più partecipato, perché più sentito, del primo –.
Da qui si può e si deve ripartire, io credo che un programma per le prossime elezioni amministrative sia facilissimo da fare, basta far parlare chi opera davvero sul territorio...senza inventarsi nulla!

Riqualificazione piazza don Musazzi Garbatola (part. 3)



3. Progetto per la piazza nuova

La piazza di ogni centro urbano è il luogo emblematico della sua comunità, il luogo in cui si formano i suoi valori, la cultura e la solidarietà tra i suoi membri, e dove pure si formano le immagini di questo legame, i suoi segni riconosciuti.
Nelle grandi città questo rapporto vive e si esprime su un’altra scala rispetto ai centri minori: nelle metropoli il legame di delle figure con gli abitanti è meno diretto e sentito. L’esperienza del progetto nei piccoli centri è pertanto importante e decisiva nella cultura contemporanea. È partendo da casi simili che si può davvero ricostruire una cultura del territorio di nuovo organica con la società e con gli uomini che la compongono.

La piazza di Garbatola, secondo noi, deve essere diversa dalla piazza di una grande città e deve esserlo, sopratutto, rispetto ai luoghi pubblici astratti e concitati di una metropoli. E questa differenza, questa peculiarità, è per noi il carattere di maggior interesse del progetto. Per questo abbiamo voluto che la piazza mantenesse la memoria dei luoghi che circondano il centro, mantenesse cioè un carattere rurale, e questo senza ricadere nel folkloristico, o in un disegno meramente nostalgico, ma reinterpretando il tema con segni contemporanei.



Attraverso un disegno semplice ed elementare abbiamo scelto di far risaltare gli elementi dominanti dello spazio, chiarificando le relazioni reciproche e facendo emergere le tracce eventualmente indebolite dal passare del tempo.
Un tracciato geometrico lineare mette in risalto la corrispondenza del luogo pubblico con il monumento maggiore, la Chiesa dei Santi Francesco e Sebastiano. Quest’area occupa tutta l’estensione dello spazio, dalla facciata della chiesa sino al fronte della corte che le si oppone. Dell’edificio sacro riprende la dimensione dello spessore e la misura delle scansioni delle sue campate. La piazza, è così anche sagrato della Chiesa e in questo senso il nostro progetto propone di demolire l’attuale cancellata che separa la Chiesa dal suolo pubblico, cancellata che fu costruita di recente, e così, di colpo, Chiesa e suolo pubblico si relazioneranno direttamente.

Il tracciato principale della piazza è articolato quindi per fasce, in parte pavimentate, in parte trattate a prato. Le fasce a verde vogliono ricordare il carattere rurale del territorio su cui si è formata e vive la comunità di Garbatola, e vogliono farlo non solo nella materia, attraverso la presenza del verde, del prato, dell’acqua e degli alberi, ma anche nel tracciato, che rimanda all’immagine dei campi agricoli e all’alternarsi delle diverse colture.
Quest’immagine convive con il disegno di arredi di gusto moderno e contemporaneo, improntato a un minimalismo discreto, più che all’esibizione di forme incongrue e insolite.
La fontana storica, tutt’ora al centro della piazza, viene poi recuperata e, svuotata, è sistemata in uno dei prati. Diviene così un’ampia seduta, anch’essa trattata a verde. Una nuova fontana, che incorpora anche la funzione monumentale e il ricordo dei caduti, è progettata sul lato opposto della piazza rispetto alla chiesa. Si tratta di un’ampia vasca a raso: nessun elemento o barriera interrompe la relazione tra il passante e l’acqua. La vasca, con fondo digradante, può perfino essere percorsa per un tratto, bagnandosi i piedi e porta così direttamente l’elemento acqua nei percorsi del resto della piazza. Quella di progetto vuole ricordare direttamente la fontana delle 99 cannelle dell’Aquila, ma nel nostro caso ogni cannella ricorda un Caduto di Garbatola con Villanova.
Al di la del sagrato, sul lato verso via San Francesco, di fronte all’attuale casa Parrocchiale, viene ripreso il disegno a fasce verdi e viene lasciato libero uno spazio riservato ai parcheggi, provvisto però di alberi, che garantiscono l’ombra e ne integrano l’immagine con resto della piazza.

Un ruolo importante nel progetto ha anche l’antica chiesina di Garbatola, l’ex Oratorio dei Santi Biagio e Francesco, che abbiamo voluto recuperare con un possibile nuovo disegno per la facciata e il tracciamento, in corrispondenza del manufatto antico, di una piccola seconda piazza, analoga e ruotata rispetto a quella principale: un tracciamento sul suolo che non ostacola il traffico e che anzi ne integra e indirizza il flusso attraverso il disegno sul suolo.
È chiaro che nel nostro progetto la viabilità esistente può rimanere e anzi il progetto, costruendosi come progetto di architettura inserito nella storia del borgo, una storia certamente più pedonale che carrabile, è indifferente alla scelte amministrative o legate a logiche altre sulla circolazione delle auto. È altrettanto vero però che certamente il nostro progetto sottende l’idea forte e ferma della necessità di pedonalizzare la quasi totalità dell’area della piazza don Musazzi. Così via San Francesco dall’incrocio con via Carlo Porta nella nostra proposta ideale diventa, inizialmente solo le domeniche e le festività poi sempre, una via senza uscita, con accesso al parcheggio centrale – raddoppiato in dimensione e numero di posti rispetto l’attuale –; le vie XX Settembre e Gorizia rimangono a senso unico da sud a nord; via Isonzo diventa una via a senso unico in entrata verso il centro del paese. È evidente che questa sistemazione, appunto considerata da noi ideale, non può prescindere dalla sistemazione della viabilità di tutto il paese, con la creazione di un percorso alternativo al centro, percorso ormai più che necessario, urgente, che non può essere demandato alla sistemazione della piazza centrale e storica.

martedì 23 novembre 2010

Riqualificazione piazza don Musazzi Garbatola (part. 2)



2. La piazza Don Musazzi: carattere e monumenti

«Concepito in stretto rapporto con gli edifici dei rustici [...], i portici, i fienili, le cantine, i granai, le stalle, le cascine, le colombaje, l’abitazione del fattore e quella del contadino e de’ bifolchi» , il sistema cascina-villa può essere considerato un elemento tipicamente milanese. Una caratteristica del sistema cascina villa, oltre alla continuità tra dimora signorile e abitazioni coloniche, era la presenza di un giardino, nei casi più importanti di un vero e proprio parco, su un lato o tutt’attorno a essa. Ovviamente variavano le dimensioni e l’accuratezza dei giardini, o dei parchi, a seconda della disponibilità economica della famiglia. Borromeo, Litta, Arese, Trivulzio, Brivio, Stampa, per dirne qualcuna, erano certamente tra le famiglie più facoltose e le loro ville avevano spesso dei giardini splendidi, ma a fronte di queste c’era tutto un sistema di piccole ville, o meglio di piccole case da nobile, con piccolo giardino spesso enfatizzato e impreziosito da sistemi architettonici classici, pavimentazioni ricercate, sparse per tutto il territorio, sistema che appunto costituiva e costituisce ancora oggi la struttura osteologica del territorio altomilanese.
Il borgo di Garbatola era composto da una serie di case coloniche e da due case da nobile. Le due case da nobile si sviluppavano ciascuna attorno due corti, una rustica, per il ricovero degli animali e dei massari, e una signorile, ornata da archi e colonne in granito. Entrambe sul loro lato orientale confinavano con giardino privato. Uno fu smembrato, frazionato e lottizzato a partire dal primo dopoguerra, l’altro fu smantellato nel 1930 e trasformato nell’attuale Piazza don Musazzi.
In ogni Cassina in epoca borromaica furono fondati, o risistemati, una serie di oratori, piccole chiese per la comunità contadina. Erano edifici semplici, spogli o pochissimo decorati, composti da 3 vani: un primo vano spesso quadrato per i fedeli, un secondo vano più piccolo che costituiva la cappella maggiore per l’altare, un terzo vano adiacente a quest’ultimo, a destra o a sinistra e con questo direttamente comunicante per la sagrestia. Adiacente a una delle due case da nobile, già di proprietà Crivelli e poi Salvioni, sul confine con l’attuale via Isonzo e l’attuale Piazza Don Musazzi fu edificato attorno al 1615 il piccolo Oratorio dei Santi Biagio e Francesco.

Dalle descrizioni dei vescovi in visita pastorale alla cascina Garbatola si evince che davanti e sul lato settentrionale della piccola chiesina era sistemato il cimitero del borgo. Cimitero che tuttavia fu smantellato nel XIX secolo e trasformato prima piazzetta del vecchio borgo. Sulla mappa del catasto LombardoVeneto con la lettera A è contraddistinto l’Oratorio di S.Francesco, il quale affacciava su quello che appunto un tempo era il cimitero del borgo, e che è indicato con la lettera B: «Piazza avanti il detto oratorio».

Nel 1905 l’antico Oratorio, divenuto troppo piccolo, fu abbandonato e a nord dello stesso, in un terreno libero fu costruita l’attuale chiesa di San Francesco e San Sebastiano. Essa non aveva un sagrato vero e proprio, così nel 1930 fu smantellato un pezzo del giardino della seconda casa da nobile, che un tempo ospitava la sede della comunità garbatolese, furono piantati i due grandi alberi ancora oggi esistenti, fu innalzato un monumento ai caduti e fu così realizzata una nuova piazza, ortogonale alla prima.

La piazza don Musazzi di oggi è pertanto il risultato di una serie di interventi successivi, di trasformazioni e di progetti.
Intervenire sulla piazza oggi è certamente uno dei compiti più difficili e insieme interessanti. Progettare una piazza per la Garbatola di oggi significa da un lato confrontarsi con il passato e la memoria del borgo, dall’altro ripensare al centro di una comunità che ha bisogno di riconoscersi in un luogo pubblico condiviso.

(continua)



Giusto per continuare la polemica, ricordo che la giuria ci ha dato praticamente zero punti per la conoscenza del luogo. Per contro in sede di stesura del bando mi chiamarono dagli uffici comunali, per conto della responsabile S. Morlacchi, per chiedermi se mettevo a disposizione del materiale storico e cartografico a tutti i concorrenti... che tristezza.

sabato 20 novembre 2010

Sul blog

Nato qualche anno fa da un’idea di una persona a me carissima, si potrebbe dire la mia compagna dell’epoca, questo blog parte appunto con l’idea di raccogliere una serie di scritti e scrittini, una volta si sarebbe detto elzeviri, per metterli a disposizione di tutti. Scritti di architettura, scritti di critica, scritti politici, ma soprattutto scritti di ricerca. Una ricerca ovviamente ancora una volta molto personale e tagliata su quelli che sono i miei interessi personali.

Nel tempo poi ho visto, e sono stato molto contento di questo, che questo spazio è diventato un luogo di incontro, un luogo dove non solo molti colleghi architetti, molti studenti, molti amici, si fermavano per qualche minuto, ma anche molti politici e amministratori locali – chissà poi cos'hanno capito, almeno quelli che conosco, dato che non hanno mai messo in pratica nemmeno una volta quello che ho scritto, anzi si sono sempre comportati esattamente all’opposto –. In ogni caso questo continua a rimanere uno spazio privato, uno studio privato ma aperto a tutti, dove tutti possono partecipare e collaborare alla ricerca, proprio com’è stato il progetto della piazza del mio paese: un’opera di tanti. Una casa del popolo, o uno studio del popolo, eheheh, un utopia? Forse si, ma almeno sul web ci è concessa.

Vi faccio due esempi recenti, di ieri, di cos'è questo spazio: ieri a Milano, dove mi trovavo per lavoro, mi ha fermato un'architetto, e quando mi hanno presentato “architetto Pravettoni” lei subito mi ha detto “ma quello del blog? Carino...”; oppure questa mattina uno studente della facoltà di architettura al secondo anno, che ha incrociato per sbaglio sul web un mio scrittino, si è presentato in studio per fare una chiacchierata e per chiedere consigli sulla sua ricerca. Questo è laboratorio di architettura, un laboratorio di idee. Non certo uno spazio di denuncia delle malefatte comunali, anche ovviamente; non certo uno spazio di critica alla mia cara sinistra, anche ovviamente; sicuramente non uno spazio politico ma uno spazio per i politici.

Sul fare politica, invece, beh...ci sto pensando, sto pensando seriamente cioè di tornare, dopo qualche anno, a farla in prima persona, ovviamente con il cuore a sinistra ma senza riconoscersi in nessuno, e sottolineo nessuno, degli attuali dirigenti o amministratori. D'altronde l'ha fatto pure Boeri...

venerdì 19 novembre 2010

Concorso per il centro di Garbatola (part. 1)



Senza vergogna e anzi con molto orgoglio vi presenterò in queste tre o quattro puntate il nostro progetto (mio e di un gruppo di amici) per la piazza di Garbatola (il borgo in cui vivo). Una piazza che studio da anni, una piazza per cui ho scritto articoli e pubblicazioni, una piazza che è stata oggetto di studi universitari, sia nei laboratori di restauro che di progettazione ai quali ho partecipato negli anni, una piazza al centro di una vicenda particolarissima che speriamo presto vedrà la luce in un libro, la vicenda dell'antica chiesina dei S.ti Biagio e Francesco.

Senza vergogna perché pensiamo che seppur sia arrivato terzultimo questo progetto sia un buon progetto. Certamente un progetto con molti limiti e attaccabile da molti punti di vista (anche se avevamo un vecchio esperto di temi tecnico-burocratico-amministrativi tra noi, oltre che essere un conoscitore della realtà in cui si inserisce il progetto), ma anche altrettanto indubbiamente un progetto serio, un progetto con delle basi solide, che affonda le sue radici nella ricerca e sulla speranza che un giorno questa ricerca venga davvero utilizzata, un progetto vero e schietto, non una finzione. Ieri sera Walter Veltroni, da Santoro, diceva che "questo governo considera la cultura un fastidio", beh, caro Walter, non solo questo governo, ma tutti i governi, siano essi di destra o di sinistra: da un lato questa classe dirigente ti mette in un angolo a studiare, poi, quando hai finito ed è il momento della resa dei conti, non ti ascolta e insieme non valorizza questa ricerca!

Puo' essere il primo vero progetto per un paese dall'epoca fascista solo questione di gusto?
Può, ma giudicatelo voi, questa mia ricerca e questo nostro progetto, prendere il minimo dei punti in merito alla conoscenza del luogo?
Insomma, ricriminazioni nel merito a parte, io, e con me gli amici architetti con i quali ho collaborato, ma non solo gli architetti, anche gli altri amici della società civile, i tecnici e tutti quelli che ci hanno dato una mano, e sono tanti, crediamo che questo nostro che vi mostriamo sia un buon progetto, ma soprattutto un progetto serio di seria riqualificazione urbana. Un progetto che non si limita a pochi interventi, ma che tenta di capire la realtà e insieme tenta di cambiarla! Un progetto che poteva essere il motore per un vero rinnovamento e che mai sarà. Grazie a tutti, spero vi divertirà seguirlo, commentarlo ecc. Credo non succeda sempre che un architetto si renda disponibile a questo, a me invece piace mettermi in gioco. Grazie a tutti.



1. La campagna e il centro urbano


C’è una grande, grandissima, differenza tra le piazze italiche tosco emiliane, o quelle dei borghi rinascimentali di Lombardia, che proprio alle prime si riferivano e con esse cercavano un rapporto, e quelle dei borghi rurali dell’altomilanese, e non è solo una differenza compositiva, o architettonica, ma è una differenza più profonda, una differenza strutturale e se vogliamo culturale.
Questi villaggi non erano e non sono costituiti da grandi case unifamiliari, o da casoni plurifamiliari, o da palazzotti signorili accostati gli uni agli altri e organizzati attorno a una piazza, ma da un insieme di corti rurali, che aggregate tra loro formavano quelle che si chiamavano Cassine. Le Cascine erano un insieme di residenze per contadini costruite attorno a un’aia e contrapposte, dall’altra parte dell’aia, alle stalle e ai fienili per il bestiame. A queste erano spesso accostate una o due ville signorili, costituite da un sistema più complesso di corti, corti rustiche, corti nobili e giardini privati. Proprio adiacente a queste, o nel mezzo dell’aia principale, in ogni caso solitamente al centro del villaggio, di solito vi era una piccola chiesina al servizio degli abitanti della comunità. Sono splendidi esempi del sistema della cascina-villa il Castellazzo di Bollate, o Villa Arconati, la Villa Borromeo-Litta di Lainate, il Castellazzo di Rho, ecc. In questi borghi la piazza non esisteva, la piazza era l’aia.

Vi è poi una ragione culturale e insieme sociale ed economica che ha ostacolato la formazione della “piazza italiana” nei borghi rurali del nord milanese: la Cassina era infatti un sistema complesso, fatto di lavoro, di mondo agricolo e fatto di poche famiglie e di tanta umanità, quasi tutta la vita delle genti che abitavano le Cassine si svolgeva al lavoro nei campi, o nel grande spazio privato, e insieme pubblico, della corte, che rappresentava il centro della vita quotidiana. «La cascina lombarda è il primo nucleo giurisdizionale imposto in terra lombarda da una “necessità” intrinseca alla gente: il lavoro. Una cascina si distanzia dall’altra in una ragionevole misura, quando comporta cioè la facoltà del lavoro: quanto può adempiere di lavoro una famiglia di contadini, o un gruppo di più famiglie raccolte nell’unità distesa del fondo».
E così è più facile provare a cercare una somiglianza tra le corti, tra le aie delle grandi Cascine e le piazze centro-italiche, fatte di palazzotti ricchi di logge e porticati che delimitano gli spazi della piazza, piuttosto che tra queste e le piazzette, o sarebbe meglio dire gli spazi di risulta che si sono nel tempo formati, quasi ritagliati, tra le varie corti rustiche e nobili che formavano la Cassina. Spazi severi, senza decorazioni, spazi chiusi, spazi spesso casuali. E così potremmo dire che le vere piazze, intese nel senso rinascimentale e umanista, nei villaggi rurali del nord Milano sono gli spazi interni delle corti, spazi regolari, spesso quadrati, costruiti e strutturati con una logica ferrea, con i lunghi ballatoi, le scale negli angoli e i grandi porticati interni.

(continua)

mercoledì 17 novembre 2010

E' tempo di cambiare!


Carissimi

riprendo a scrivere dopo tanto tanto tempo. Una lunga pausa di riflessione, di studio, di duro lavoro.
Riprendo a scrivere perché sono stanco di questa classe dirigente chiassosa e impreparata, stanco di questi urlatori televisivi e di quest’incapacità dilagante a tutti i livelli.
Riprendo a scrivere perché sono ormai scettico su tutto, non mi fido più di niente e di nessuno, tranne di pochi amici e dei pochi che credono che ancora qualcosa si può fare. Riprendo a scrivere perché è incredibile come in questo paese non conti più nulla la ricerca. Hai studiato, stai studiando, stai ricercando da anni su determinati temi, beh non gliene importa niente a nessuno! Non certo ai privati cittadini, quasi tutti, imbesuiti di fronte alla mediocrità televisiva, non agli amministratori o ai politici, troppo presi dalle loro manie e dalle loro beghe di potere. Uno schifo.
Torno a scrivere perché sono stanco di starmene lì a guardare per cercare di capire se cambia qualcosa. No non cambia niente.

Perché oggi? Perché oggi finalmente una commissione formata da tre sconosciuti ha letto, dopo cinque mesi !!!, ha letto il verdetto di un concorso – possibile che ci vogliano cinque mesi per giudicare un progetto? pensate se in Università, altro luogo che non brilla per efficienza, un ragazzo consegnasse un lavoro oggi e prendesse il voto tra cinque mesi, non si griderebbe allo scandalo? – per la riqualificazione della piazza in cui vivo. Una piazza su cui ho scritto articoli di giornale, su cui conduco una ricerca dal 2007, su cui abbiamo fatto fare lavori universitari, una piazza, infine, in cui non più tardi di qualche anno fa il Sig. Sindaco prometteva solennemente che si sarebbe fatto in quattro per pubblicare questa ricerca. Niente ultimi. Ultimi? Ma stai scherzando? No, no... ultimi. Praticamente zero punti come conoscenza del luogo. No, non è possibile... Si, si. Non so se ridere o piangere. Ha vinto un progetto innovativo? Un progetto che rivoluziona un paese, o che lo conosce dalle sue viscere? No, ha vinto un progetto mediocre e ingegneresco, che non tocca quasi niente e lascia tutto così com’è, non tocca il vecchio monumento, non tocca la vecchia fontana, non tocca gli alberi, nemmeno quelli vecchi e malconci, non tocca nulla nemmeno il sagrato, se così si può chiamare, della chiesa attuale e sbaglia i nomi della chiesina antica – di cui nessuno conosce l’esistenza tranne per qualche articolo mio antemprima del libro che mai vedrà la luce –. Ma com’è possibile? Com’è possibile che tre giurati che ci hanno messo cinque mesi a giudicare un progetto non abbiano tenuto conto di tutto questo?

E allora? Non dobbiamo credere più nei concorsi? Non dobbiamo più studiare? Non dobbiamo più fare ricerca? Oppure dobbiamo ribellarci e prenderci finalmente quello che ci spetta, finalmente mandare a casa, una volta per tutte, questa classe dirigente, questi politici incapaci che siedono in consigli comunali per un pugno di voti, per poi sperare che si possa finalmente ricostruire un’Italia più giusta, più meritocratica, meno favoleggiante, più onesta, più rigorosa, meno doppiogiochista e meno intrallazzona, più limpida! Un Italia dove se una classe dirigente convince un ragazzo, un suo figlio, a studiare e lo porta poi, quando è ormai uomo, al massimo livello di istruzione, non lo fa per tenerselo buono in un angolo, ma lo faccio per poi usarlo e per poi ascoltarlo...
È ora di cambiare dobbiamo tornare a essere quell’Italia che usava i ricercatori, gli intellettuali, i pensatori, quell’Italia geniale che cresceva e si sviluppava in tutte le arti e i mestieri e non questa italietta mediocre. Dobbiamo lottare perché finisca presto questo cupo tempo dei burattini di partito, mediocri funzionari dalla giacchetta grigia e triste, e ricominci il tempo della ricerca, dello sviluppo, perché no dell’ascolto...

venerdì 16 aprile 2010

Ricevo e pubblico

Ricevo e pubblico un contributo alla discussione, a quanto detto nei post precedenti:

CENTROSINISTRA, UNA PROPOSTA DI ROAD MAP PER IL 2013

Dopo il quasi deprimente risultato delle regionali per il centrosinistra si apre il compito più importante; allestire una alleanza per il 2013 in grado di vincere. L'umore che circola nel centrosinistra in questi giorni è quasi di sconforto; il disorientamento è massimo.
Ogni partito cerca formule più o meno salvifiche oppure più o meno astruse per presentarsi con possibilità di vittoria all'appuntamento. Saggiamente qualcuno dice che bisogna cominciare a preparare ben bene le cose già dalle prossime settimane, benché la confusione regni sovrana. Eppure alcuni paletti e punti fermi sulle cose da fare dovrebbero essere già ben chiari a tutti. Innanzitutto mi sembra del tutto inutile scervellarsi sulle alleanze, sul chi includere e sul chi escludere. Le elezioni regionali non hanno dato molte vie di uscite a chi vuol ancora giocare con formule complicate. La via indicata dalle urne è una sola: trovare il modo di mettere tutti insieme, tutte le forze politiche minimamente organizzate, anche le più piccole, perché nel 2013, se andrà tutto per il meglio, magari si vincerà per 24.000 voti come nel 2006 e si potrà perdere per 10.000 voti come in Piemonte.

Una grande alleanza di partiti e movimenti basata su poche idee-forza e non su un programma incomprensibile come quello del 2008 (composto da 280 pagine); un programma su una decina di punti che diano il segno di un grande cambiamento possibile e di una speranza per quanta più gente possibile. Per arrivare a questo programma si dovrebbero studiare molto bene, con studi e sondaggi molto approfonditi, i due blocchi sociali con cui il centrosinistra deve fare i conti; il blocco sociale del centrodestra ed il blocco dell'astensione. Incunearsi nell'uno anche in minima parte e scongelare una minima parte dell'altro sarebbero i due fattori determinanti per il cambiamento dello scenario politico.

Le due cose dovranno essere completate da un terzo obiettivo; fermare l'emorragia di voti in uscita dal centrosinistra o verso il blocco del centrodestra o verso la grande regione polare dell'astensionismo. Solo all'interno di questa nuova vastissima alleanza (che la si chiami Unione 2 o no, poco importa) poi si potranno impostare sottoblocchi di alleanze. Una idea che sta circolando molto in questi giorni è quella di una federazione di tutti i partiti e movimenti a sinistra del PD, ma ci potrebbero essere anche altre sotto-aggregazioni interne. Molto dipenderà anche da quale legge elettorale ci accompagnerà alle elezioni del 2013. Per fare tutte queste cose devono cambiare però anche i rapporti fra i partiti dello schieramento di centrosinistra, dove è tutta una gara ad essere ognuno più autoreferenziale e snob dell'altro. Ci vuole più generosità, ci vuole più coerenza ed omogeneità di comportamenti di fronte al comune nemico, ci vuole più apertura anche verso i piccoli partiti o i piccoli soggetti non tradizionali, che potrebbero fare la differenza e pescare più facilmente nel voto astensionista.

In un certo senso non ci sono più partiti di serie A, di serie B e di serie C dopo queste elezioni regionali; siamo tutti sulla stessa barca. Ognuno da solo può fare ben poco e tutti hanno bisogno di tutti.
E, soprattutto, bisogna dire basta ai troppi atteggiamenti da divi.
Il centrosinistra o, comunque, il vasto fronte di opposizione comincia ad essere troppo popolato, ormai saturo direi, di narcisi, di primedonne, di santoni, di semidei della politica altezzosi e suscettibili anche con i propri simili. Troppi personalismi, troppi egocentrismi, troppi fans di questo o di quello.

Un generale bagno di umiltà e di serietà, magari nel ricordo di quanti, azionisti, comunisti, socialisti ecc., negli anni '30 e '40 del secolo scorso non esitarono a far fronte comune contro il nazifascismo e contro la dittatura (senza neanche sapere cosa fosse il divismo in politica; caso mai sapevano cosa era l'eroismo), sarebbe sommamente auspicabile ed utile da parte di tutti.

In questo centrosinistra si sta veramente esagerando con i vezzi da primedonne. Non si è meno leader di un altro se si chiede collaborazione o la si offre ad un partito del nostro stesso schieramento; non ci si deve sentire diminuiti se non si cerca sempre di primeggiare sui partiti vicini, se si offre per primi collaborazione contro il nemico comune. Al contrario, leader vero dovrebbe essere magari colui disposto a sacrificare anche il proprio orgoglio personale o di partito in vista di un obiettivo nobile ed alto che riguarda l'avvenire non solo del centrosinistra, ma dell'intero popolo italiano.

Pino A. Quartana
Segretario Nazionale del Nuovo Partito d'Azione

Roma 6 aprile 2010

martedì 13 aprile 2010

Auguri!!!


Perché è così difficile ammettere le proprie sconfitte?
Perché non siamo più abituati a chiedere scusa a guardarci dentro a guardare dove abbiamo sbagliato e se necessario a farci da parte? Magari per un poco, non certo per sempre, solo per qualche tempo, il tempo necessario, magari, per riorganizzarci le idee, per capire cosa vogliamo dalla vita, per capire dove abbiamo, appunto, sbagliato e prometterci seriamente di non commetter gli stessi errori.
Perché non siamo più abituati a fare questo cammino? In fondo credo che alla fine non sia così dannoso attraversare il mare della fatica, della sofferenza, assaporare la sconfitta, la sconfitta personale, per poi…beh per poi rimettersi in gioco e ripartire! Forse tutti dovremmo attraversare quel mare una volta nella vita.

In seguito alla sconfitta politica dei partiti di sinistra del 1994, nel 1995, nell’estate di quindici anni fa nacque L’Ulivo. Non era un partito, era un progetto, era un’idea, era un sogno, era la canzone popolare che si alzava forte! Quel sogno nel 1996 vinse le elezioni.

Sono passati 15 anni da quell’inizio. Quasi subito dopo quel successo, subito dopo quell’avvio, il professor Prodi principale, autore di quella vittoria, di quel rinnovamento interno alla sinistra, fu destituito. E da chi fu destituito? Ricordate la commissione bicamerale di D’Alema, segretario del PDS-DS, e di Silvio Berlusconi, inventore e leader di Forza Italia? Ricordate come andò a finire? Una commissione che doveva cavalcare l’onda del rinnovamento, sia a destra come a sinistra, affondò tutte le idee di riforma. La commissione bicamerale doveva lavorare sulle riforme dello stato, federalismo, scuola, struttura organizzativa dello stato, delle regioni, delle provincie, ordinamento politico e giudiziario, ecc. Niente. Non cambiò nulla. “Bisogna che tutto cambi perché non cambi nulla…”.

Sono passati 15 anni e la destra continua a vincere in tutte le regioni produttive e la sinistra si accontenta delle regioni minori, tranne l’Emilia e la Toscana – mi scuseranno gli abitanti di Umbria, Basilicata, ecc –. A Milano il prossimo anno si voterà e l’esito è scontato. Nel nord Milano ogni qualvolta si va al voto l’esito è scontato: o la destra si suicida politicamente, cioè si divide per eccesso di fiducia, si spacca, ecc, insomma o la destra sbaglia formazione e schiera mille attaccanti senza portiere e allora, forse, la sinistra segna e vince – uno a zero non di più –, oppure la partita è chiusa sin dall’inizio.
A Nerviano è andata così e andrà. A Parabiago è andata così. A Lainate è andata così. Sull’asse del Sempione, in Brianza, a Milano, va così.

Ma, scusate, l’ha ordinato Dio padre che a Milano la destra, cioè il partito del bene, debba per forza vincere contro il partito del male, la sinistra?
In questo clima di quasi rassegnazione dove anche le primarie, che sembravano a un certo punto esser diventate lo strumento principe, “tutti gli organi direttivi e i candidati del PD si sceglieranno con le primarie” dicevano alla costituente del PD, del nuovo partito della sinistra democratica italiana, anche le primarie sono state dimenticate. Affossate, come la bicamerale, dimenticate, cancellate – tranne in Puglia, dove guarda caso il candidato non di partito, Vendola, vince le primarie contro il candidato di partito e poi vince le elezioni… – sembra per sempre.
Ma d'altronde chi può andare contro la volontà del partito, sia esso PCI, PDS, DS, Margherita, PD? Contro la volontà del partito, nessuno deve e può osare andare. Altrimenti? Altrimenti semplicemente sei eliminato dai giochi. O ti appiattisci al volere di pochi sapienti, che stanno a Roma, o a Milano, boh, oppure niente, oppure non conti nulla.

E intanto la sinistra continua a perdere. Ormai si gioca per perdere di poco non per vincere. E dopo mille sconfitte, anche le peggiori, ovviamente non si cambiano né i giocatori, né l’allenatore, né i dirigenti, il presidente, ecc. Si continua a perdere e ci si rincuora se si perde di poco. Drammatico. Ma la cosa più drammatica è che non si cambia. Nella sinistra italiana vale la seguente regola: squadra che PERDE non si cambia!
Forza allora, continuiamo a perdere, non bastano tre elezioni di fila, non bastano Milano, la provincia di Milano, la regione, i collegi lombardo veneti, non bastano 15 anni, o quasi, di sconfitte, squadra che perde non si cambia!

Cosa fare? Fabio tu parli e scrivi ma cosa faresti? Beh semplicemente, per ora, so cosa non farei, non ripercorrerei le scelte della nostra classe dirigente degli ultimi 15 anni e farei esattamente l’opposto! Forse qualcosa si muoverebbe. Basterebbe insomma che questi nostri dirigenti, dopo 15 anni di sconfitte personali e collettive, attraversassero, un pochino, quel mare di cui dicevo all’inizio, forse solo così si potrebbe tornare a una vera democrazia, dove fino al momento dello spoglio nessuno saprebbe in anticipo il risultato delle urne.

giovedì 1 aprile 2010

Una rivoluzione possibile: il modello UPN


Mi piacerebbe che queste ultime tre riflessioni post elettorali venissero lette insieme, come legate da un filo conduttore, la necessità di riformare un sistema. Insieme lungi da me pensare di avere le soluzioni in tasca, in ogni caso penso che un blog può essere anche il luogo delle esperienze personali e, perché no, il mezzo per condividerle, se queste possono servire ad alimentare una discussione, o a scaternarla.

Vorrei così, un po’ per ringraziare chi mi ha aiutato in questi ultimi due anni, un po’ per autocelebrazione, non del sottoscritto ma dell’associazione di cui parlerò, cioè per gasare la squadra in vista dell’estate imminente e delle cose quindi che con quella squadra organizziamo, e infine per provare a dare qualche risposta, portare ai lettori e frequentatori di questo spazio un esempio di come sia possibile attuare una piccola rivoluzione in poco tempo.
Nel piccolo borgo in cui vivo nel 1994 con un amico fondammo una società sportiva, frutto dell’unione di due squadre che piantavano le loro radici nella tradizione sportiva degli oratori milanesi, la piccola squadra di Calcio e quella di pallacanestro. Qualche anno dopo, credo nel 1996, in seguito all’arrivo di Don Alberto Cereda e all’unione della parrocchia di Garbatola con quella di S.Ilario, il paese vicino, alla polisportiva garbatolese unì la ancor più salda tradizione calcistica santilariese – di S.Ilario era il campione degli anni ’70 scomparso precocemente Luciano Re Cecconi –. Dopo il grande lavoro di Don Alberto, anche in vista della sua partenza dopo esser stato giovane atleta e allenatore due anni fa fui nominato presidente della società sportiva, che nel frattempo era stata rinominata in UPN. Già dai primi giorni si capì che quello poteva essere un momento di passaggio verso una nuova gestione, un momento che poteva essere difficile e portatore di cambiamenti. Nessuno però poteva pensare che quel momento sarebbe stato l’inizio di una rivoluzione. Non una rivoluzione nel senso delle cose fatte, quelle sarebbero e sono continuate come prima, i campionati si fanno come prima, gli allenamenti si fanno come prima, le vittorie e le sconfitte sono le stesse di prima, ma una rivoluzione culturale, una rivoluzione del modo di pensare alla società sportiva, una rivoluzione del cuore.
Innanzitutto cominciamo dal principio, dalle basi. La cosa più difficile e macchinosa fu quella di creare la squadra! Non si poteva cancellare il passato, per poi trovarsi da soli in mezzo al deserto, bisognava tenere i vecchi – nel nostro caso anche giovani – ed esperti dirigenti, o allenatori, e insieme bisognava fare pulizia e inserire nei punti giusti, nei punti chiave, anche inventati ad hoc, cioè in base alle capacità di ciascuno, le persone giuste. Due rappresentanti per ogni sport rappresentato nella polisportiva, più due consiglieri direttamente nominati dal presidente, in tutto una squadra di dodici persone. Fatta la squadra, dopo non poche difficoltà, bisognava strutturarci e sistemarci burocraticamente: atto costitutivo, statuto, codice fiscale, iscrizioni a tutti i registri che mancavano, conto in banca, bilanci da sistemare, coordinamento tra le varie anime della società, ecc. Ci è voluto un anno, un anno difficile, in cui molti si sono sacrificati, ma alla fine del 2008 le cose erano pronte per la rivoluzione.
Sistemata l’associazione dal punto di vista burocratico, una prima operazione concreta è stata quella di censire la stessa, per conoscerla capillarmente, per capire “lo stato dell’associazione”: quanti atleti, di che età, quanti dirigenti, quanti allenatori, quando si allenano e quando giocano – per potere essere ogni tanto presente –, ecc. In secondo luogo ho iniziato a partecipare, da osservatore, alle lezioni di danza, alle partite del calcio, ai tornei di pallavolo, ecc. In terzo luogo bisognava avviare una serie di incontri con le varie anime dell’associazione: incontri in cui si sono prima ascoltati i bisogni, le necessità e i problemi di ciascuno, quindi si è iniziata a impartire una certa linea programmatica. Una delle cose più importanti era, per me, far sentire come propria, di ciascun tesserato, dirigente o atleta, un’associazione, e mentre il segretario si occupava di sistemare i conti e le parti burocratiche, e il vicepresidente di mantenere i rapporti con le parrocchie, io decisi di assumere il “dicastero” della propaganda! Lo so che evoca brutti ricordi, e apposta ho usato quel triste termine, perché se letto in chiave democratica e liberale la propaganda è l’unico modo, che almeno io conosco, per arrivare alla gente, e se è il caso per poterle chiedere sacrifici. Credo infatti che per prima cosa bisogna coinvolgere il più possibile la gente, farla sentire parte di una cosa più grande, farla sognare e soprattutto farla lavorare divertendosi! L’avevo sperimentato negli anni delle scuole superiori, quando divenuto rappresentante degli studenti, il secondo anno con l’appoggio di una solida dirigenza organizzammo feste, giornate sportive, manifestazioni, ecc. E allora per prima cosa abbiamo distribuito felpe marchiate UPN, magliette marchiate UPN, allestito banchetti al mercato, alle manifestazioni comunali, partecipato a giochi estivi – abbiamo vinto la coppa, di Zibello, al torneo di calcio balilla umano organizzato dal Comune mentre le nostre ragazze distribuivano cartoline e materiale divulgativo UPN –, organizzato feste, proiettato filmati, ecc.
Parallelamente siamo l’unica associazione sportiva dilettantistica nervianese, o una delle poche, che presenta in assemblea pubblica ai propri iscritti il bilancio e l’attività estiva. Non solo feste e divertimento ma anche lavoro serio. Un’associazione è come un mosaico: ognuno ha un suo ruolo e un suo compito.

Il mese scorso un’insegnante di danza mi ha portato un disegno di una bambina dell’asilo. Il disegno rappresentava la bambina stessa con le sue amiche e compagne di danza e in mezzo a loro un cartello con scritto: forza UPN. Badate che nessuno ha mai parlato ai ragazzi, figuratevi ai bambini o alle bambine dell’asilo di UPN, non c’è tifoseria, ecc, e nonostante questo loro stesse si sono auto inserite in un qualcosa che sentono loro, qualcosa di più di un’associazione, una famiglia, una comunità. E allora proprio quest’estate in occasione delle attività estive che organizzeremo – bar estivo, il ciringuito, tornei di beach volley e basket, serate danzanti e serate rock dal vivo, ecc – lanceremo il nuovo motto, preso in prestito dall’FC Barcelona, che è una sintesi tra senso di appartenenza a una comunità e propaganda schietta: UPN, più di un club!
Ovviamente questo mio è solo un esempio, ma ve ne sono molti altri simili. Perché, quindi, mentre in questo nostro profondo nord le associazioni galoppano a grande velocità nel nuovo millennio, i partiti, anche i partiti maggiori, ormai ridotti a piccole associazioni, tendono invece a fatica a inseguire quello che queste associazioni fanno piuttosto che essere loro stessi un modello di riferimento? Io ho delle risposte personali, risposte che partono cioè dalle persone, da una classe dirigente stanca e spesso lontana dalla realtà che li circonda, non cattive persone ma cattivi dirigenti in un momento di grandi cambiamenti, che il berlusconismo, in Italia, non ha fatto altro che accelerare.

Tutto quello che si è fatto e tutto quello che si farà ancora non sarebbe stato possibile grazie a un gruppo di persone serie, precise e affidabili che comunitariamente ringrazio a una a una!

ps. scusate ma ogni tanto si può anche dire che si sono fatte e si fanno delle cose buone, poi in un momento come questo è tempo di reagire!

mercoledì 31 marzo 2010

Della Lega


Settimana scorsa come altre migliaia di persone sono rimasto incollato alla rete e alla televisione satellitare a guardare l'esiliata trasmissione di Santoro, una sorta di chiamata alle armi pre-elettorale per il popolo del centro sinistra. Certo! una boccata d’ossigeno in una televisione asfissiata da un misto di forzismo propagandistico, buonismo e ottimismo diffuso. Certo! un programma che mi ha fatto ridere, sorridere, incazzare. Ma mentre la sinistra e gli elettori di sinistra sono confinati in una sorta di televisiva riserva indiana e i dirigenti degli stessi partiti di sinistra se la suonano e se la cantano, e le anime della sinistra stessa dopo la diaspora sono ancora alle prese, nonostante il Partito Democratico, con lotte interne, alla ricerca della vera anima del partito, c’è un partito "normale", per dirla con Ilvo Diamanti, editorialista de La Repubblica, che ha ancora una volta vinto le elezioni: la Lega.

Secondo Diamanti è proprio il partito d Bossi l’unico vero partito rimasto in Italia fra tanti partiti leggeri, mediatici o alle prese con lotte intestine. La Lega è una cosa diversa, anche oggi che agisce come Lega di governo, sia a livello nazionale che territoriale.
Ora possiamo dire che è il partito più centralista e più inscalfibile di questa seconda Repubblica, gestito in modo padronale quasi monarchico da Bossi e dai suoi fedelissimi, che poi abitano nel raggio di pochi chilometri da lui; possiamo anche dire che è facile fare un partito così solido quando si costruisce un partito così chiuso e dove il dialogo democratico tra le parti, e quindi lo scontro tra esse, è quasi nullo, dove cioè comanda uno solo – o un gruppo –; ma è confrontando le cifre che ci si accorge che non è così facile liquidare il fenomeno Lega. La lega esprime il sindaco in 355 comuni, il presidente in 14 province e il governatore in 2 regioni. Alle elezioni europee del 2009 si è imposta come primo partito in oltre 1000 comuni su quattromila del Nord, e laddove non governa determina le scelte dei sindaci in carica. Ha una leadership forte, personalizzata e centralizzata. È impiantata solidamente nei capoluoghi storici, Varese e Bergamo, della Lombardia, e Treviso, e da qualche tempo anche a Verona, in Veneto. Nel governo, i suoi uomini presidiano dicasteri importanti e strategici: Maroni all'Interno; Calderoli alle riforme istituzionali; infine Zaia, neo governatore del Veneto e anche neo punto di riferimento del nuovo leghismo, all’agricoltura, che proprio Zaia ha trasformato da ministero minore in un dicastero ad alta visibilità, in quanto evoca la terra, il senso di appartenenza, la tradizione. Potremmo anche dire, per fare gli avvocati del diavolo, che in vent’anni di governo non sono riusciti a portare a casa niente, non la secessione, ovviamente, nemmeno il federalismo, che propagandano dal 1986, più o meno, ma neanche uno straccio di federalismo fiscale, tuttavia la Lega rimane ancor oggi il partito più radicato a nord. Un partito che da venticinque anni allestisce gazebo nelle piazze, propaganda Merchandising, mobilita quasi tutti gli iscritti, e continua a fare proselitismo fuori dalle scuole e dai licei. Su dieci studenti tre o quattro subiscono ancora il fascino della sinistra di lotta, della sinistra alternativa e del mondo dei centri sociali, mondo al quale appartengo ma che per primo credo sia fuori moda, fuori tempo massimo e fuori dal mondo in cui oggi si vive, un mondo diverso da quello in cui eravamo noi giovani di fine XX secolo, gli altri sette reagiscono imbracciando la spada leghista. Ma il leghismo che parla alla pancia della gente parla anche agli operai, raggiunge tanto i piccoli imprenditori, quanto i loro operai, siano essi della brianza, del Piemonte e del triveneto; e li raggiunge proprio quando sono al bar, all’uscita della “fabbrichetta” che gestiscono o in cui lavorano. La Lega parla con la gente e sta con la gente, soprattutto ascolta la gente e poi dice alla gente ciò che essa si vuole sentire dire.

La Lega è un partito solido che ha sorpassato anche la crisi fisica del suo leader, quando tutti pensavano che il crollo fisico del condottiero leghista avrebbe portato alla disfatta del partito creato proprio da lui, beh non è andata così. La Lega parla alla pancia della gente? Si, credo proprio che la Lega parli alla pancia della gente, ma chi parla al suo cuore? Chi dall’altra parte, dalla parte della sinistra, ha la forza di parlare al cuore delle persone? Chi ha la credibilità morale per farlo? Non certo questa dirigenza burocratica e classista che in vent’anni non è riuscita a collezionare null’altro che sconfitte su sconfitte; una classe dirigente che interviene sempre e prontamente per fermare quasi tutti i tentativi di riforma interna, anche laddove sa di esser sconfessata da tutti tranne dai suoi fedelissimi. E mentre la Lega continua nel suo lungo e duraturo lavoro di radicamento, la sinistra preferisce la via della secessione interna alla via della vera riforma. Ma di chi è la colpa se non di una classe dirigente arroccata nei suoi posti a tutti i livelli, dal livello locale, che riflette la situazione generale, dove gli stessi sindacalisti-politici comandano da anni, al livello nazionale, dove da circa trent’anni si susseguono e si inseguono i vari D’Alema, Fassino, Veltroni, Franceschini, già leader perdenti dei vari movimenti giovanili deglia anni ’70 e ’80, nonché allievi e portaborse dei vecchi segretari degli anni '60 e '70. E allora chi vuole tentare di riformare il partito quale strada ha se non quella di creare un nuovo, l'ennesimo, partito? Guardate il caso di Di Pietro – non sono un suo fan ma guardate il suo caso –: egli voleva candidarsi come leader del PD, entrando nel PD e cosa gli è stato risposto? O guardate il caso di Vendola, che doveva esser tagliato secondo i dirigenti romani. Come questi ci sono altre centinaia, migliaia di casi. Niente. La sinistra non vuole riformarsi, cambiano i nomi ma le persone rimangono e i giovani vengono relegati a ruoli assolutamente marginali. Così non si può continuare. La tradizione di sinistra non è nell’inseguire le istanze della gente, ma nel precorrerle e nel capire prima le cose. Oggi non è così, oggi questa classe dirigente oltre a non ricercare non vuole nemmeno ascoltare.

Ma forse ha ragione il nostro presidente del Consiglio: è impossibile sconfiggere il partito dell'Amore, l'Amore vince sempre sull'odio... Ahahahah

martedì 30 marzo 2010

Lombardia: in morte della sinistra


E' un po' di tempo che non scrivo di politica, ma questa sera non posso non farlo. E' infatti troppo tempo che l'ultima sera delle tornate elettorali, siano esse politiche, amministrative, europee, o referendum, ecc, si conclude allo stesso modo, almeno per me, con un velo di tristezza misto a una grande incazzatura. Cambiano gli addendi, o fanno finta di cambiare, ma il risultato è lo stesso: una più o meno netta sconfitta della politica di centro sinistra. La tristezza, dicevo, è accompagnata dall’incazzatuta e anche stasera abbiamo assistito alla solita sfilata dei dirigenti del maggiore partito di centro sinistra – già perché ormai Rifondazione è praticamente scomparsa – che a turno non ammettono la sconfitta e non ammettono che è tempo di cambiare davvero e di andare a casa. Basta, non ne possiamo più, dovete andare a casa. Dovete lasciare il partito in mano ai giovani, dovete farvi da parte, dovete cambiare davvero! Il Partito Democratico così com’è ha fallito: Veltroni ha fallito, Bersani ha fallito, D’Alema ha fallito, la dirigenza della vecchia Margherita ha fallito. Andate a casa, tornate alle vostre famiglie e al vostro lavoro – sempre che dopo anni di partitocrazia ne abbiate ancora uno –.

Prendiamo ad esempio il nord. Al nord la sinistra ha perso, la sinistra al nord non esiste più. Gli intellettuali sono stati estromessi, i giovani non sono nemmeno considerati. Come è possibile pensare che un candidato che già aveva perso, soprattutto in provincia, lo scorso anno alle elezioni provinciali a Milano, Penati – già ottimo sindaco di Sesto, per l’amor del cielo –, poteva vincere in tutta la Lombardia. Com’era possibile pensare che chi non è stato votato nell’alto milanese poteva esser votato in Brianza, nel varesotto, nel comasco, nel pavese, per non dire nella bergamasca, in valtellina, o nel bresciano? Tranne quando si candidano persone davvero importanti, culturalmente e socialmente parlando, come Cacciari a Venezia, o Illy in Friuli, o Chiamparino a Torino, tranne cioè quando si candidano veri progressisti, uomini che riescono a raccogliere consenso quasi ovunque, tranne in quei casi al nord si perde ovunque. Zaia stravince e Formigoni vince per la quarta volta consecutiva. Ho detto la quarta volta! Possibile che dopo circa vent’anni di governo formigoniano, tra l’altro non un governo illuminato, direi quasi un pessimo governo, un governo clientelare e fazioso, ai dirigenti di centro sinistra non sia venuto in mente niente di meglio che ricandidare il candidato perdente in provincia di Milano? Avevamo dieci anni di tempo, avevamo cinque anni di tempo e? Niente. Si poteva ricominciare, si poteva studiare una vera alternativa, si poteva lavorare per radicarsi nel territorio per tornare ad ascoltare la gente e invece niente. Cambiano gli addendi, cambiano i nomi, non esistono più il PDS, il Partito Popolare, l’Ulivo, i DS e la Margherita, esiste il PD, ma le persone sono sempre quelle e il risultato è sempre identico: vent’anni di sconfitte.
Non voglio esser drastico ma realista! Dove si vince si vince per demerito altrui non per merito nostro. Il centro sinistra a nord, e soprattutto in Veneto e in Lombardia, è morto. Ma la Lombradia e il Veneto non sono l’Emilia e la Toscana di destra, non lo sono mai state, sono ed erano i centri del lavoro, i centri del lavoro artigianale, operaio e imprenditoriale, i centri dei grandi movimenti del volontariato sociale, delle Acli, ecc. Ebbene in questi centri la gente vota a destra e la sinistra con questa gente non riesce più a dialogare e forse, ed è anche peggio, non vuole più dialogare.

Ovviamente possiamo dire che è colpa delle televisioni, di un leader che ha trasformato il pensiero della gente condizionandolo, facendo diventare comune il pensiero dalla classe dirigente e imprenditoriale, che ovviamente difende essendo lui uno di loro, o il loro capo naturale, e la povera gente oggi non ha alternative.
Ma quello che forse più colpisce è il crollo del mito del buon governo locale della sinistra. Dove la sinistra governa, a livello locale appunto, non è detto che venga riconfermata, e non è detto che governi bene, non è detto cioè che faccia quello che la gente, tutta, non solo gli speculatori, ma anche i giovani, gli intellettuali, le famiglie, ecc, si aspettano. La sinistra quando amministra, spesso in modo tranquillo e burocratico, non fa più sognare, e la gente non la rivota. Prendete il caso del mio paese, Nerviano: dopo cinquant’anni di centro destra vince il centro sinistra, anche per demeriti altrui. Che grande possibilità per cambiare rotta, per far sognare la gente, e invece – badate bene non vuole esser un giudizio sull’operato di questa amministrazione – di fatto la cittadinanza nervianese in tutte le elezioni che sono succedute a quella amministrativa continua a votare a destra. Possibile che l’unica possibilità per la sinistra di vincere sia che la destra si presenti divisa al suo interno? Non è solo il caso di Nerviano, è il caso anche di Parabiago, in cui tra poche ore inizierà lo scrutinio, o è stato il caso di Lainate. Quasi ovunque nel nord milanese la sinistra vince se la destra si presenta separata in casa: quando la sinistra vince non vince per un vero lavoro di riforma interna, e anzi spesso i riformatori del pensiero di sinistra, siano essi giovani, intellettuali, imprenditori, ecc, vengono allontanati dalla dirigenza del partito stesso, o relegati a ruoli assolutamente marginali, mentre restano i più docili al pensiero dominante, e peggio i soliti nomi. Pensiamo al caso di Penati appunto, un caso che rappresenta perfettamente una classe dirigente che continua a suonarsela e cantarsela da sola – e direi quasi sempre a suonarsela male date le continue sconfitte –.

Proviamo a trovare una nota positiva – mentre la Polverini annuncia che domani ci sarà la festa per i gladiatori del voto, ringraziando i ragazzi del suo comitato... brividi; e la Bonino ringrazia per la vittoria? (che vede solo lei...) –? Credo che l’unica vera nota positiva di questa tornata elettorale è la conferma di Vendola in Puglia. La vittoria di uno che ha ammesso il suo errore, cioè di essersi fidato troppo della dirigenza del partito che lo sosteneva e che lo ha tradito a suon di scandali, da cui si è allontanato ripulendo il suo precedente esecutivo e sfidando a viso aperto, con le primarie, il “nuovo” candidato di partito battendolo e andando tra la gente a chiedere il voto. Un voto che la gente gli ha ridato. Bravo.
Speriamo che anche in Lombardia si potrà un giorno ripartire da lì, dalle famose primarie. Personalmente vorrei ricordare che già nel 2003 andavo dicendo che proprio le primarie potevano essere l’unico modo per trasformare, o provare a farlo, un partito, un gruppo di persone, troppo legato ai suoi meccanismi, troppo legato alla sua burocrazia interna, troppo lontano dalla gente.

Ps. Stavo preparando una riflessione sulla sinistra e il lavoro ma l’ho momentaneamente congelata. La riproporrò nei prossimi giorni.

giovedì 18 marzo 2010

Monte Carasso, un esempio tra pianificazione e intervento nel centro storico



Che questo non sia un momento facile per i giovani lavoratori, e tra questi per i giovani progettisti, ma viene da dire per i giovani in generale, è un dato di fatto, così oggi, come spesso altre volte mi è capitato, un po’ per fuggire dalla monotonia del lavoro, un po’ per ricaricare le batterie e un po’ per cercare soluzioni a due progetti a cui sto lavorando, con alcuni amici architetti sono tornato in un paese del Canton Ticino, Monte Carasso, che avevamo scoperto per caso un anno e mezzo fa e che poi ho avuto occasione recentemente di studiare.

Monte Carasso è un piccolo paese a sud di Bellinzona di 2400 abitanti, più o meno come il borgo in cui abito. Era un tipico paese ticinese, fatto di case rustiche, disposte quasi casualmente lungo la strada principale, di un ampliamento più o meno sregolato, come i nostri paesi e di un centro con una chiesa e quello che resta di un antico convento.
Alla fine degli anni ’70 era appena stato approvato un piano regolatore che prevedeva la costruzione di una scuola a ridosso dell’autostrada, mentre la zona centrale nelle vicinanze dell’ex convento faceva parte di un programma di riedificazione. La nuova amministrazione appena insediatasi pensò invece di sconfessare quel piano e di inserire la nuova scuola proprio nell’ex convento. Nel 1978 fu chiamato, con l’incarico di recuperare il vecchio convento e di progettare la nuova scuola, l’architetto Luigi Snozzi. Per Snozzi fu l’occasione concreta per cercare di reinventare il centro del paese. La zona monumentale con il chiostro e la chiesa non era leggibile e ciò che mancava a Monte Carasso erano gli spazi pubblici, gli spazi gioco, cioè gli spazi per i giovani e per le famiglie. Snozzi propose di valorizzare il complesso monumentale dell’ex-convento rimettendo in luce le antiche arcate, demolendo alcune case, ripulendo l’intero impianto e soprattutto facendo una grande operazione di svuotamento del centro monumentale dalle superfettazioni. Chiesa, scuola, cimitero, casa del Comune, palestra comunale si trovarono di colpo a esser parte di un nuovo progetto, un progetto che tendeva a costruire il centro pubblico della città, una nuova agorà fatta di spazi aperti e di luoghi in cui sostare, giocare e trascorrere il tempo libero.

Dopo l’approvazione politica dei principi espressi nel progetto snozziano, si pose il problema della definizione dei nuovi strumenti urbanistici che dovevano sostituire il piano, le famigerate norme tecniche e il regolamento edilizio.
In primo luogo fu elaborato un piano particolareggiato per la “zona di protezione monumentale”, che prevedeva nuovi allineamenti e che di fatto in quel punto annullava il piano regolatore. Fu studiata una nuova normativa urbanistica, estesa ai nuclei del centro antico limitrofi alla zona monumentale, che si limitò a pochissime regole, demandando i problemi che di solito vengono affrontati nelle norme comunali, volumetrie, distanze dai confini ecc, alla bontà dei progetti e a pochissime regole. Questa nuova normativa, posti alcuni vincoli e consegnato un grande potere a una commissione di architetti, fu concepita infatti in modo da offrire una grande libertà, soprattutto insediativa. Una delle questioni principali era densificare il centro storico, dare la possibilità cioè di costruire piccoli edifici accanto agli edifici esistenti e limitare così il consumo del suolo periferico. Monte Carasso divenne di colpo un esempio di città in cui il progetto sostituì il piano, o meglio uno di quegli esempi in cui il piano si ricostruì proprio a partire da un progetto e non viceversa, come succede abitualmente. Monte Carasso divenne l’esempio di come un progetto di riqualificazione di un centro monumentale poteva trasformarsi in un vero e proprio progetto di città.

Questa riduzione delle regole non significò lassismo e deregulation sfrenata senza controllo e senza paracadute: infatti il controllo operato dalla commissione urbanistica, fatta di personalità importanti, proprio perché centrale nella costruzione della città, e non di geometri di paese (con tutto il rispetto per questi ultimi), fu grande e importante. Solo dopo cinque anni, nel 1990 si approvò il nuovo piano regolatore, con le regole costruite a partire dalla sperimentazione sul campo dei progetti approvati in quegli anni.
Mentre abitualmente la regola urbanistica viene applicata con assoluta rigidità, obbligando il progetto ad adattarsi a norme severe quanto astratte, spesso indifferenti ai luoghi e al buon progetto d’architettura, nel processo pianificatorio avviato a Monte Carasso fu così concessa al progetto architettonico la massima libertà di trasgressione, a patto che questa trasgressione fosse motivata come effettivamente qualificante.

Oggi Monte Carasso ha un centro monumentale libero, arioso, leggero e vivo e un centro storico fatto di case antiche affiancate da edifici moderni, e credo che Monte Carasso possa ancora oggi essere considerata come un modello per i nostri poveri e mal ridotti borghi. Un esempio in cui pianificazione e progetto non sono andati solo di pari passo, ma anzi un semplice progetto, se così si può dire, per un centro antico si è convertito in idea di città, sconfessando la pianificazione astratta delle norme urbanistiche, intese nel senso stretto del termine, e trainando la pianificazione successiva. Monte Carasso è ancora un modello da studiare, da vedere, da vivere.


venerdì 12 marzo 2010

Ricominciamo da qui... Buon 2010!


Questa sera, dopo una lunga pausa di riposo, di dolore e di riflessione ho deciso di tornare a scrivere.

A chi serve l’Universo?
Se il genere umano, se l’umanità, scomparissero
L’Universo sarebbe inutile
Noi...
Noi vogliamo imitare Dio
Perciò esistono gli artisti.
Gli artisti vorrebbero ricreare il mondo,
come fossero piccoli dei.
E fanno una serie di...
Hanno un continuo ripensare...
Sulla storia, sulla vita su tutto quello che succede quaggiù,
o su quello che credono sia successo.

Si perchè alla fine crediamo nella memoria.
Perchè tutto è passato, e chi garantisce che tutto quello che immaginiamo sia passato, sia passato realmente? A chi dovremmo chiedere?

Questo mondo, questa ipotesi allora è un illusione.
La sola cosa vera è la memoria. Ma la memoria è un’invenzione...
In fondo la memoria, intendo dire nel cinema... nel cinema la cinepresa può fissare un momento, ma quel momento è già passato.
In fondo quello che fa il cinema è far rivivere il fantasma di quel momento, e abbiamo la certezza che quel momento sia esistito fuori dalla pellicola? O la pellicola è la garanzia dell’esistenza di quel momento? Viviamo insomma in un dubbio permanente...


Il regista Fridrich, protagonista fantasma di Lisbon Story, il cui nome è un omaggio del regista reale, Wim Wenders, a Federico Fellini, stanco del mondo delle immagini svendute, stanco del protagonismo di registi, compositori, architetti, svenduti agli effetti speciali del dio denaro, prova a tornare alle origini, e decide di tornare al cinema degli inizi, alla classicità.
Entra così in un vortice emozionale in cui tutto perde senso e capisce che nel momento in cui immortala, o decide di immortalare una scena, quella scena diviene di colpo, appunto, falsa, o comunque svenduta in quanto vendibile e commerciale.
Dopo avere provato a girare un film reale, con una vecchia camera a manovella, omaggio al cinema degli inizi, novello architetto greco, o romano, decide di abbandonare anche quella strada, perché attaccabile e ancora una volta frutto di un processo forzato perché conscio, quindi produttore di immagini irreali. «Le immagini non sono più quelle di un tempo, è impossibile fidarsi di loro [...]. Mentre noi crescevamo le immagini erano narratrici di storie, e portatrici di cose. Ora sono tutte in vendita, con le loro storie e le loro cose. Non sanno più come mostrare. Le immagini vengono vendute aldilà del mondo, e con grossi sconti... » dice il regista. Ricominciare dal principio cent’anni dopo quindi, ma «non ha funzionato. Per un pò è sembrato possibile, ma poi tutto è crollato... ».
Inizia così a girare per la città con una camera a tracolla che porta a penzoloni sulla schiena, riprendendo ciò che accade alle sue spalle senza filtri: montagne di pellicole reali e vergini, cioè pure finché nessuno le vedrà, e che quando saranno viste perderanno il loro senso e la loro purezza.

È la morte del cinema, è la morte dell’architettura e della composizione. È il dubbio del regista, dell’architetto, del compositore, è il dubbio dell’artista di fronte al mercato: cosa fare? Svendersi definitivamente o tornare agli inizi, al classicismo? Ma è poi possibile tornare davvero agli inizi, magari facendo finta che non sia successo nulla fin qui?

E qui arriva il paradosso: è un tecnico a consegnare al compositore la soluzione. Proprio quella tecnica che ha portato l’artista ad allontanarsi definitivamente dal corso naturale della storia ripudiando i frutti della tecnica stessa, facendogli nascere la voglia di tornare all’antichità, consegna la soluzione al regista:
«Questo è un messaggio per Fridrich, il re del magazzino immagini spazzatura... [mentre sullo sfondo compare una scritta pubblicitaria, “Principio, o finale felice...” geniale trovata wendersiana]. Ohhh Fritz, mi sa che ti sei un po’ perso! Tutte queste immagini giocattolo mi sa che ti hanno fatto un poco uscire di testa. Ora sei in un vicolo cieco, faccia al muro, ma... muovi gli occhi, fidati di loro, non ce li hai mica sulla schiena... Continua a fidarti della tua vecchia manovella, essa è ancora capace di immagini in movimento, perché sprecare quindi la tua vita in superflue immagini spazzatura, quando mettendoci il cuore puoi farne superbe immagini in celluloide. Le immagini in movimento possono ancora fare quello per cui vennero inventate cento anni fa. Possono ancora essere commoventi... ».

Fidiamoci del nostro cuore e proviamo a fare delle architetture con il cuore.
Ben tornati, e ben tornato... a me stesso