venerdì 31 ottobre 2008

Studenti ricerca e ricercatori

I ragazzi sono preoccupati per l’avvenire e temono di essere le uniche vittime dei cambiamenti che si stanno preparando per loro e hanno perfettamente ragione.

Tempo fa, ormai quasi quindici anni fa, fui anch'io, leader degli studenti di un grande istituto superiore della zona in cui vivo, e devo dire che anche quindici anni fa si partecipava, tra ottobre e novembre, a numerose manifestazioni delle quali poco si capiva, anche quindici anni fa si portavano duemila ragazzi a Milano, si correva dentro la metropolitana, si saltavano i cancelli, si manifestava, pacificamente e coloratamente, poi di colpo, con l'avvento dell'inverno e l'approssimarsi delle pagelle, tutto si calmava, apparentemente. Dopo quelle dei grandi, infatti, altre manifestazioni, occupazioni, scioperi bianchi, assemblee generali per piani (che amavo di più perché più produttive) si facevano durante l'anno, per la mancanza di studi di informatica, per la mancanza di uno studio serio delle lingue straniere, o per il problema dei professori/professionisti, troppo anziani e affaccendati nel loro autocontrollo del posto di lavoro, ecc, ma di quelle nessuno si occupava.
Se gli studenti fossero calmi e lucidi avrebbero già capito da un pezzo che il futuro non glielo ruba la Gelmini, pur autrice di un testo assurdo, soprattutto nei confronti delle scuole elementari, ma glielo hanno già rubato anni fa molti degli adulti al cui fianco marciano con tanta convinzione (e non è un caso che marcino assieme gente di destra e di sinistra, professori e genitori).
Il governo non è certo innocente, ma coloro che aizzano bambini e ragazzi contro le misure del governo non la raccontano giusta. Se davvero avessero a cuore il futuro dei nostri giovani si batterebbero come leoni per "tagliare i rami secchi e rendere gli studi molto più seri, più rigorosi, più profondi". Perché nelle scuole superiori venga cancellato il par-time dei professori, perché anche il professore sia costretto alla ricerca, a scuola, ma sia anche dotato di un luogo degno dove poterla fare (ricordo le aule professori della mia scuola, dove docenti di italiano si trovavano un'ora o qualche minuto a fianco a docenti di fisica, poi quelli di matematica con quelli di inglese e via dicendo. Che ricerca potevano produrre se non la ricerca del risultato della squadra del cuore il lunedì e il giovedì, se non chiacchiarare dei propri figlie e dell'aspetto comportamentale, non disciplinare, dei ragazzi).

Lo smarrimento e l’angoscia di questa generazione che puntualmente ogni anno protesta sono smarrimenti genuini e pienamente comprensibili, ma sono anche il frutto della superficialità con cui gli adulti hanno permesso la distruzione della scuola e dell’università.
I dottorati di ricerca sono allo sbando, la ricerca non interessa a nessuno, della condizione reale di ricercatori, assegnisti, borsisti, cultori della materia, a nessuno interessa, e quel che è peggio tra un ricercatore neo professionista e un neo professionista, diciamo normale, normalmente si preferisce il secondo.

Chiudo facendovi leggere due punti di un lungo comunicato di alcuni dottorandi e dottori del Politecnico di Milano, sulla scia delle proteste di questi giorni.


Crediamo che la lotta da fare, come dottorandi e dottori in architettura e in composizione architettonica in particolare, sia, innanzitutto, proprio di pretendere che venga riconosciuta l’utilità sociale e collettiva del nostro livello di formazione, aprendo la discussione al carattere che devono assumere i dottorati di ricerca, nei quali convivono ricerche su questioni di architettura (il grado di avanzamento dei temi del progetto stilistico moderno) sia ricerche di carattere monografico biografico, sia ricerche con un taglio più teoricoo concettuale, accanto ad applicazioni di carattere seminariale che si prestano come contributi per le trasformazioni possibili di determinati territori.

[...]

Sempre sotto l’aspetto della “produttività” del nostro campo di ricerca può essere utile dare uno sguardo a cosa sono i dottorati all’estero e in specie in alcune università degli USA: in primo luogo va tenuto presente che lì i corsi di laurea durano quattro anni in media, e che dopo la laurea è possibile accedere a dottorati e master. Fin qui tutto come in Italia, con la differenza che il dottorato prevede due anni iniziali di corsi abbastanza intensi da frequentare per iniziare a orientarsi, seguiti da un periodo – che, in media, si aggira intorno ai cinque anni, per un totale di sette anni – durante il quale si porta avanti la ricerca vera e propria. I dottorandi di solito fanno da tramite tra insegnanti e studenti organizzando gruppi di lavoro e seminari, e anche in questo caso si può riscontrare qualche analogia con l’Italia. Un punto interessante riguarda le opportunità di lavoro: dovendo scegliere tra un candidato in possesso di master o di dottorato, un selezionatore aziendale preferisce spesso il primo perché privo di quella formazione avanzata di cui dispone il dottore di ricerca e che lo rende – per l’imprenditore – troppo costoso per avere voglia di assumerlo, dal momento che lo stipendio che dovrebbe corrispondergli dovrebbe
[attenzione dovrebbe...] essere piuttosto elevato.

Come si può notare, sia in un caso – l’Italia, dove la ricerca si taglia– che nell’altro – gli USA, dove la ricerca è già prevalentemente privata ma dove esistono centri di ricerca di prim’ordine – chi dispone di una formazione avanzata costata anni di fatica e sacrifici non ha alcuna certezza che i suoi sforzi verranno ricompensati e che venga riconosciuto al suo lavoro quel carattere di utilità sociale e collettiva che gli spetta. Questo anche per sgombrare il campo dal luogo comune secondo il quale un Ph.D. anglosassone trova lavoro dovunque si presenta; non è esattamente così, secondo la tendenza che sta prevalendo.

Di esempi se ne potrebbero fare molti, da lavori fatti in collaborazione con amministratori siano essi di destra e o di sinitra di enti locali, comuni e provincie, finiti in niente, in una stretta di mano (se va bene), a amministratori pubblici e privati che per quieto vivere preferiscono non dar lavoro, perché di questo si tratta, a giovani che loro stessi hanno voluto formare, o almeno questo vogliono far credere. I ragazzi finché sono ragazzi, manifestano ogni tanto, cantano ballano, suonano al nostro fianco (e lo dico per averlo più volte sperimentato!!!), ridono, gridano, ecc, fanno il nostro gioco, quando pensano, progettano, studiano finalizzando lo studio al lavoro allora di colpo diventano nemici, o comunque non più così amici.

giovedì 30 ottobre 2008

Università: governo e opposizione; studenti e docenti

Ringrazio il compagno e lettore attento Palma per la segnalazione e volentieri ripubblico questo articolo apparso oggi su La Stampa. Il tema è il rapporto tra università e governo, tra università e opposizione. Sembra tanto semplice da fuori: la maggioranza da un lato l'opposizione dall'altro, gli studenti e i professori contro il governo, in realtà la situazione è molto più delicata e difficile e gli unici a rimetterci, per il momento, sembrano essere i giovani aspiranti ricercatori. Una generazione di mezzo: troppo giovani per essere considerati all'altezza dei professionisti della ricerca, poco considerati dalla comunità scientifica, dalle pubbliche amministrazioni, dalle imprese, con uno stipendio da fame e con le spalle troppo poco coperte per fare la rivoluzione ...

Due patti scellerati

di Luca Ridolfi, La Stampa, 30 ottobre 2008.

Il decreto Gelmini è stato convertito in legge, scuola e università sono in agitazione. Il mondo della scuola scenderà in piazza oggi (chissà perché dopo e non prima dell’approvazione del decreto?), mentre l’Università si mobiliterà il 14 novembre, per combattere tagli che furono decisi fra giugno e agosto, quando il Partito democratico riteneva inopportuno scendere in piazza («Noi manifesteremo il 25 ottobre»). Misteri della politica italiana.

Ma parliamo della sostanza. Che cosa sta succedendo nella scuola e nell’università? Perché studenti, docenti e genitori paiono trovarsi dalla medesima parte della barricata?

Quel che sta succedendo è relativamente chiaro, almeno per chi conosce i dati di fondo dell’istruzione in Italia e riesce a non farsi accecare dalle proprie credenze politiche. Sia la scuola sia l’università dissipano una quota di risorse pubbliche considerevole, nel senso che spendono più soldi di quanti, con un’organizzazione più efficiente, basterebbero a garantire i medesimi servizi. Su questo, quando si trovano al governo, destra e sinistra la pensano allo stesso modo.

Chi avesse dei dubbi può consultare due documenti del governo Prodi (il «Quaderno bianco sulla scuola» e il «Libro verde sulla spesa pubblica»). Credo non si sia lontani dal vero dicendo che, con una migliore allocazione delle risorse, sia la spesa della scuola sia la spesa dell’università potrebbero essere ridotte di almeno il 10 per cento a parità di output.

La novità di questi mesi non sta nella diagnosi, ma nella determinazione con cui si sta passando dalle parole ai fatti: la destra al governo sta facendo con la consueta ruvidezza molte cose che la sinistra stessa, magari con più garbo, avrebbe fatto se ne avesse avuto la forza, il tempo e il coraggio (fra queste cose c’è, ad esempio, il rispetto delle norme Bassanini sul numero minimo di allievi per scuola, varate dal centro-sinistra ben 10 anni fa). Del resto fu lo stesso Padoa-Schioppa, all’inizio della scorsa legislatura, ad avvertirci che certi sprechi non possiamo più permetterceli e a ricordarci che il problema di eliminarli dovremmo porcelo comunque, persino se avessimo i conti perfettamente in ordine: ogni spesa, infatti, ha un «costo opportunità», ossia è sottratta ad impieghi alternativi (se buttiamo al vento 8 miliardi per false pensioni di invalidità, automaticamente rinunciamo a una cifra equivalente in asili nido, sussidi di disoccupazione, aiuti ai poveri, sostegno ai non autosufficienti ecc.).

Su questo il governo ha ragioni da vendere, anche se non si può non rilevare che molte misure - pur condivisibili negli obiettivi - diventano criticabili per il modo in cui sono messe in pratica. È il caso, per fare l’esempio più importante, dei tagli all’università, che sarebbero ben più accettabili se punissero ancora più duramente gli atenei in dissesto, ma premiassero con più e non meno soldi gli atenei virtuosi.

Ma quella degli sprechi è solo una delle due facce del problema dell’istruzione in Italia. L’altra faccia è il tragico declino dei livelli di apprendimento, la scarsissima preparazione dei nostri diplomati e laureati, specialmente nelle regioni meridionali. Di questo sono corresponsabili ministri e docenti, ma anche gli studenti e soprattutto le loro famiglie. Il sistema dell’istruzione in Italia si regge su due patti scellerati: nella scuola, il patto fra insegnanti e famiglie, nell’università il patto fra docenti e studenti. Il cardine del primo patto è: l’importante è che il ragazzo sia sereno, vada avanti senza soffrire troppo, prenda il diploma; che poi impari molto o poco conta di meno. Il cardine del secondo patto è: l’importante è arrivare alla laurea, non importa in quanto tempo e imparando che cosa; noi professori pretendiamo sempre di meno da voi studenti, voi studenti non ci importunate e vi accontentate di quel poco che riusciamo a trasmettervi. Naturalmente ci sono anche - nella scuola come nell’università - isole felici e importanti eccezioni, ma il quadro generale è purtroppo diventato questo.

Sono precisamente i due patti non scritti che spiegano l’inconsueta alleanza fra una parte dei docenti, una parte degli studenti e una parte dei genitori. I docenti difendono i posti di lavoro (nella scuola) e le carriere (nell’università). I genitori difendono una scuola che insegna poco e male, ma in compenso non stressa i ragazzi e risolve non pochi problemi reali delle famiglie, specie quando la madre lavora. I ragazzi sono preoccupati per l’avvenire e temono di essere le uniche vittime dei cambiamenti che si stanno preparando per loro.

E hanno perfettamente ragione. Solo che indirizzano la loro ira verso il bersaglio sbagliato. Se fossero calmi e lucidi avrebbero già capito che il futuro non glielo ruba la Gelmini, ma glielo hanno già rubato molti degli adulti al cui fianco marciano con tanta convinzione. La precarietà dei giovani e il ristagno del sistema Italia sono anche il risultato non voluto e non previsto di una lunga e colpevole disattenzione per la qualità dell’istruzione. Il governo non è certo innocente, perché non c’è quasi nulla nei provvedimenti di cui da mesi si discute che lasci prefigurare un innalzamento apprezzabile del livello degli studi, e c’è persino qualcosa che fa temere un ulteriore declino. Ma coloro che aizzano bambini e ragazzi contro le misure del governo non la contano giusta: se davvero avessero a cuore il futuro dei nostri giovani si batterebbero come leoni per tagliare i rami secchi e rendere gli studi molto più seri, più rigorosi, più profondi. Perché lo smarrimento e l’angoscia di questa generazione sono genuini e pienamente comprensibili, ma sono anche il frutto della superficialità con cui gli adulti hanno permesso la distruzione della scuola e dell’università.

mercoledì 29 ottobre 2008

L'università e il governo

La fabbrica dei docenti
di Francesco Giavazzi, Il Corriere della Sera, 28 ottobre 2008.

La situazione nelle nostre università è paradossale. Studenti e professori protestano contro una riforma che non esiste; il ministro, preoccupato dalle proteste, non si decide a spiegare quel che intende fare per riformare l'università. L'unica certezza è che nei prossimi mesi si svolgeranno nuovi concorsi per 2.000 posti di ricercatore e 4.000 posti di professore ordinario e associato, ai quali seguiranno, entro breve, altri 1.000 posti di ricercatore. In tutto 7.000 posti, più del dieci per cento dei docenti oggi di ruolo.

I 4.000 posti di professore saranno semplicemente promozioni di persone che sono dentro l'università. Le promozioni avverranno secondo le vecchie regole, cioè con concorsi finti. E' assolutamente inutile che un giovane ricercatore che consegue il dottorato a Chicago o a Heidelberg faccia domanda: di ciascun concorso già si conosce il vincitore. I 3.000 concorsi per ricercatore assicureranno un posto a vita ad altrettanti dottorandi che lamentano la loro condizione di precari. In tutte le università del mondo ad un certo punto si ottiene un posto a vita, ma ciò avviene solo dopo aver dimostrato ripetutamente di saper conseguire risultati nella ricerca.

Qui invece si chiede la stabilizzazione per decreto senza neppure che sia necessario aver conseguito il dottorato. Il ministro ha ereditato questi concorsi dal suo predecessore e non pare aver la forza per cambiarli e assegnare i posti secondo criteri di merito piuttosto che di fedeltà. Gli studenti ignorano tutto ciò e sembrano non capire l'importanza di meccanismi di selezione rigorosi, in assenza dei quali le università che frequentano vendono favole. In quanto ai professori, buoni, buoni, zitti, zitti. Se questi concorsi andranno in porto ogni discussione sulla riforma dell'università sarà d'ora in poi vana: per dieci anni non ci sarà più posto per nessuno e ai nostri studenti migliori non rimarrà altra via che l'emigrazione.

La legge finanziaria dispone un taglio ai fondi all'università che è significativo, ma non drammatico: in media il 3% l'anno (1,4 miliardi in 5 anni su una spesa complessiva di circa 10 miliardi l'anno). Si parte da tagli quasi nulli nel 2009, mentre poi le riduzioni diverranno via via crescenti per raggiungere la media del 3% nell' arco di un quinquennio. Il taglio non è terribile, anche considerando che la stessa Conferenza dei rettori ammette che in Italia la spesa per studente è più alta che in Francia e in Gran Bretagna. Comunque reperire risorse è sempre possibile: ad esempio, si potrebbero cancellare le regole sull' età di pensionamento approvate dal governo Prodi, ritornare alla legge Maroni e investire i denari così risparmiati nella ricerca e nell'università. Né mi parrebbe osceno far pagare tasse universitarie più elevate alle famiglie ricche e usare il ricavo in parte per compensare i tagli, in parte per finanziare borse di studio per i più poveri.

Come spiega Roberto Perotti in un libro che chiunque si occupa dell'università dovrebbe leggere («L'università truccata», Einaudi, 2008) tasse uguali per tutti sono un modo per trasferire reddito dai poveri ai ricchi. I dati dell'indagine sulle famiglie della Banca d'Italia, citati da Perotti, mostrano che il 24% degli studenti universitari proviene dal 20% più ricco delle famiglie; solo l'8% proviene dal 20% più povero. Nel Sud la disparità è ancora più ampia: 28% contro 4%. Il ministro Gelmini afferma che il suo modello è Barack Obama: forse il ministro non sa quanto costa a una famiglia americana mandare il figlio in una buona università. In una delle migliori, il Massachusetts Institute of Technology, la frequenza costa 50.100 dollari l'anno (40.000 euro), ma il 64% degli studenti che frequentano il primo livello di laurea riceve una borsa di studio.

lunedì 27 ottobre 2008

Edilizia scolastica a Nerviano. Un esempio.

In barba a quanto sostenuto, anche in scambi e battute e-mail, tutte personali quindi ovviamente non ne riporto alcuna parte, da alcuni sensitivi del mio piccolo paese, in merito a presunte mire verso lavori pubblici da parte mia, segnalo: primo che sono un architetto e quindi gli enti pubblici sono ovviamente una delle possibilità, forse le più interessante per un progettista; secondo che ho partecipato con altri amici di Nerviano o che avevano studiato a fondo Nerviano, al bando per la riprogettazione della scuola Materna di Garbatola, e mai ho usato questo mezzo per propagandare questa partecipazione o altro; terzo che il concorso per la scuola materna dei mio piccolo paese l'ha vinto, appunto, lo sconosciuto, o novello Carnerade (almeno nelle vie telematiche), Studio Adenti (chi conosce qualche lavoro, curriculum, studi, ecc., faccia sapere o segnali).

Dopo un signor nessuno (telematicamente parlando ovviamente) al progetto della scuola di S.Ilario, un secondo (sempre telematicamente o internautamente parlando, ma nel 2008 non è un buon segno...) al progetto della scuola di Garbatola (con tutti i piccoli inutili ripostigli, i dossi e controdossi, l'utilizzo di un retro per farne il fronte e il fronte storico che diventa retro...), dopo un progetto (questo tutto fantomatico) per la scuola di via Dei Boschi, la storia si ripete per la quarta volta (ma che Nerviano e l'architettura scolastica non vadano molto d'accordo?) con la materna di Garbatola.

Ma a quando un concorso vero? Aperto a tutti con progettisti chiamati a lavorare e a produrre qualcosa da far giudicare a persone competenti? Quando anche Nerviano sarà un paese moderno?
Detto questo credo che noi giovani architetti in un momento così difficile, culturalmente e economicamente, come questo più che mai dobbiamo continuare a lavorare duramente e seriamente, a studiare, a lottare, a viaggiare, a sognare un momento migliore.

venerdì 17 ottobre 2008

Rafael Moneo: il museo Archeologico di Carategena [part.2]




.
.
.

.
.
.
.
.

.
.
.



Cartagena fu prima di tutto un porto di primissimo piano nel bacino del Mediterraneo, un porto splendido, un porto naturale. «El sangre de la ciudad es su puerto - è il suo grandioso esordio - Cartagena es una ciudad naval. Fuori c´è una gran brezza, luce forte e limpida, e quando usciamo sulla rambla mi spiega che da lì bisogna guardare le alture della città vecchia immaginando di stare con l´acqua alla cintura, a mollo nella laguna. El viaje es imagination sorride»[1].

Fa caldissimo nella regione di Murcia in questo scorcio di estate 2008 e il termometro segnale 40 gradi, sono le 11 del mattino, la temperatura è destinata a salire.
Passeggiamo per il porto cercando di immaginarci cosa doveva essere. Un porto naturale: tra due montagne che fanno da bocca di porto si infatti apre un grande bacino protetto pieno di navi. Costeggiamo le antiche mura puniche sino a la plaza Heroes de Cavite e di li in pochi passi si arriva alla plaza del Ayuntamiento, dove la sera prima ci fermammo a cenare ascoltando musica tradizionale e poesie antiche. L’ingresso del Museo Archeologico è su Plaza del Ayuntamiento. Tutto di quel museo, la scritta sulla porta di ingresso, il corpo adiacente l’ingresso, l’edificio su calle principe de Vergara, tutto ricorda l’architettura di un grandissimo maestro contemporaneo: Rafael Moneo.
Entriamo nel museo e alla recepiton chiedo se il museo è nuovo e se è stato costruito dal noto architetto spagnolo, mi rispondono di si, e con grande sorpresa, mi dicono che è stato inaugurato a luglio - per questo non esistono pubblicazioni, nemmeno li -.

Secondo Moneo c’è un rapporto diretto tra le architetture, anche le più moderne e apparentemente distratte o non curanti della storia, e il passato, c’è un legame «tra gli edifici e il passato che i luoghi nascondono; quel passato nel quale inevitabilmente ci imbattiamo quando inizia il primo lavoro richiesto dalla costruzione, cioè lo scavo che precede il processo di fondazione» [2]. Lo scavo è il primo gesto della costruzione e attraverso lo scavo l’architetto si mette in collegamento diretto con il passato di un luogo, «lo scavo diventa lo strumento lo strumento per cercare nelle sue viscere la diretta testimonianza di un passato sepolto» [3]. E il Museo Archeologico di Cartegena è un edificio costruito a partire da questo concetto, un edificio che lavora sull'idea dello scavo come momento evocativo. Un edificio molto complesso, su più livelli compresi i livelli sotterranei, che mette in comunicazione parti diverse di città. Ha un affaccio pubblico, se vogliamo borghese, si entra infatti dalla piazza del Municipio attraverso un palazzotto signorile del XIX secolo, quindi sfruttando i dislivelli della città – il teatro romano si trova a una quota più elevata rispetto il porto e l’ingresso al Museo – e passando sotto calle principe de Vergara si entra nel corpo centrale dell’esposizione, un edificio a più piani addossato alla collina dove sorge il teatro e a esso collegato.
Il Museo Archeologico di Cartagena è quindi un edificio costruito sulla sua sezione, un edificio che permette al visitatore di entrare concretamente nelle viscere della città, a contatto diretto con gli scavi prima di uscire e con grande sorpresa ammirare il grande teatro.





.
.
.

.
.

.
.
Per 1500 anni la città si dimenticò del suo teatro romano e la sua romanità. Nel 1988 durante una campagna di scavi archeologici – ce ne sono molte ancora in corso in città – si ritrovarono i resti dell’antico edificio pubblico. Alla fine del XX secolo il teatro fu quasi completamente liberato dalle costruzioni che nei secoli gli si erano sovrapposte.
Degli edifici costruiti sul teatro si è conservata solo una parte della chiesa antica di Cartagena, duramente bombardata durante la guerra civile del 1939.

http://www.kewego.it/video/iLyROoafYXP0.html

[1] Tratto dal diario di viaggio 2007, alla scoperta di Annibale, di Paolo Rumiz su "La Repubblica".
[2] RAFAEL MONEO, La solitudine degli edifici e altri scritti, Umberto Allemandi & C., Torino, 2004, p. 95.
[3] Ibidem, p. 98.

[Fig. 1] Schizzo dell'edificio delle esposizioni, di F.Pravettoni.
[Fig. 2] L'edificio delle esposizioni da calle Principe de Vergara.
[Fig. 3]
Teatro romano di Cartagena.

giovedì 9 ottobre 2008

Museo Archeologico di Cartagena - [part. 1]




.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
Dopo qualche divagazione politico amministrativa, e qualche altra storica, vorrei riprendere il cammino iniziato un anno fa ripartendo dall’ultimo viaggio, quello di quest’estate: un blog infatti non è solo un giornale, nazionale, regionale, o locale, un blog è anche un diario, un diario quotidiano, un diario di viaggio. Da sempre in vacanza quasi quotidianamente, come molti di noi, scrivo su un taccuino quello che succede, le impressioni, i luoghi, gli sguardi, le frasi che mi colpiscono, i musei, i campeggi, ecc. Quest’anno con i soliti grandi amici sono stato nuovamente in Spagna. Alla Spagna mi lega uno dei periodi più belli della mia vita, ci legano i luoghi, mi legano gli amici che ho ancora la, ci lega l’architettura di quel paese stupendo, e per due settimane siamo andati girovagando lungo la costa tra Barcelona e Tarifa.

13 Agosto
Con un po’ di tristezza nel cuore ripartiamo da Tarifa per la via del ritorno. Ci fermiamo l’11 in costa del Sol; il 12 risaliamo l’Andalusia fermandoci qua e la per una tapas, una cana e un bagno. Il 12 al tramonto arriviamo nella regione autonoma di Murcia e decidiamo, novelli cartaginesi, di fermarci a Cartagena.

«“Ama Cartagena come l´ho amata io. Non troverai mai più una Spagna più Spagna di questa”. […]“El sangre de la ciudad es su puerto Cartagena es una ciudad naval”.
Fuori c´è una gran brezza, luce forte e limpida, e quando usciamo sulla rambla mi spiega che da lì bisogna guardare le alture della città vecchia "immaginando di stare con l´acqua alla cintura", a mollo nella laguna». Con queste parole Paolo Rumiz, giornalista de La Repubblica, un anno fa introduceva Cartagena nel suo diario di viaggio alla scoperta di Annibale. Noi ci siamo capitati per caso, perché il sole tramontava e avevamo bisogno dopo un giorno di viaggio di fermarci a riposare. Quale altro posto è meglio di una delle città-porto più importanti dell’antichità, una di quelle nobili decadute che ci piacciono tanto?

L’epopea cartaginese dell’odierna Cartagena fu brevissima, fondata Asdrubale [1] nel 227 a.C., nel 208 fu conquistata dai romani. Paolo Rumiz così descrive quella storia: «Amilcare sentito che il partito filo-romano vuol fargli la pelle, scappa dall’Africa e fa vela a Ovest e, con Annibale ancora bambino, approda a Cadice, ai margini del mondo conosciuto. Soggioga tribù, s’impossessa di miniere, trasforma il Sud dell’Iberia in una colonia, manda alla madrepatria favolosi carichi d’argento, riacquista il consenso perduto.
È qui che Asdrubale fonda Cartago Nova [2], la più grande colonia africana in Europa. Ma dopo pochi anni dopo, mentre Annibale devasta l´Italia spadroneggiando in casa del nemico, Scipione lo beffa marciando sulla Spagna e prendendo Cartagena. Erano così le guerre di una volta: più facili da vincere in trasferta che non in casa».

Qui la storia è una cosa seria, non una cosa per pochi intellettuali o per nostalgici e «ogni fine settembre una confraternita celebra uno spettacolare scontro armato romani-cartaginesi. E quando la città deve chiedere autonomia alla Murcia, lo fa sbandierando la "diversità punica" esattamente come i "lumbard" fanno con i Celti per battere cassa a Roma. “La antiguidad es un valor economico”».
La città è vuota, solo qualche bar è aperto. Mangiamo pesce all’aperto cullati dalla brezza marina e ascoltiamo recitare poesie in castigliano con musiche popolari in sottofondo. Cartagena fu città cartaginese prima e romana poi, fu città bizantina prima, e poi visigota, araba, spagnola. È una città moderna, ottocentesca, borghese, per certi versi simile a Milano, una città ricca, con un rapporto difficile con la rovina, con il passato. Passato che però si manifesta con tutta la sua potenza quando lasciata Calle Mayor per entrare nella parte archeologica della città con grande sorpresa incontriamo l'appena restaurato teatro romano e il nuovissimo Museo Archeologico della città. C’è qualcosa di stranamente familiare in quell’edificio. Decidiamo di saperne di più e passata la notte, prima di partire per Murcia, faremo ritorno in città.

[continua]
.
.
.
.

[1] Asdrubale Barca (Cartagine, 245 a.C. – Metauro, 207 a.C.), generale cartaginese della famiglia dei Barcidi, era figlio di Amilcare Barca e fratello minore di Annibale. Quando Annibale nel 218 a.C. partì per la sua spedizione in Italia, Asdrubale assunse in sua vece il comando nei possedimenti cartaginesi in Spagna, difendendoli vittoriosamente dagli attacchi portati dai romani nel corso di diversi anni.

[2] Fondata nel 227 a.C. da Asdrubale con il nome di Qart Hadash (città nuova) nella zona precedentemente occupata dalla città di Mastia, fu la principale città dei cartaginesi in Spagna e da qui partì Annibale per iniziare la Seconda guerra punica. Con la conquista romana cambiò nome in Cartago Nova e divenne una delle città più importanti della Hispania Citerior. Divenne colonia romana con Gaio Giulio Cesare nel 45 a.C.. Più avanti, all'epoca dell'imperatore Diocleziano, divenne capitale dell'omonima provincia romana.

Mostra del Bitto - Sapori Insubrici

Premesso che personalmente non mi piace molto parlare oggi di Insubria, perché sono passati molti secoli da quando non esiste più come entità politica-territoriale, basta pensare che già durante l'epoca romana esisteva la Regio Transpadana, non la Regio Insubrica, ma forse mi piace di più parlare di ex ducato di Milano, è per altro vero che la politica savoiarda e unitaria prima, concretamente, e quella fascista e quella democristiana poi, idealmente, hanno cancellato ogni forma di riconoscimento politico amministrativo all'ex Insubria, e quindi oggi non esiste un termine, se non Insubria, che definisce la terra che fu appunto Insubria, Regio Traspadana, capitale dell'Impero, e Ducato di Milano, la terra che va dal Ticino all'Adda, sino al San Bernardino. Ma di questo ne parleremo un'altra volta.

In un momento in cui si parla tanto di insubria ricevo, e volentieri pubblico e segnalo questa festa:

[...] Mostra del Bitto (edizione num.101) avrà luogo a Morbegno dal 13 al 19 ottobre 2008, e per tutta la sua durata viene allestita all'interno del Polo Fieristico Provinciale assieme con la XVIII° Fiera Regionale dei Prodotti della Montagna Lombarda e la VI Rassegna eno-gastronomica dei “Sapori Insubrici”. A Morbegno, dal 1907, viene organizzato ogni autunno il concorso dei formaggi d'Alpe valtellinesi e valchiavennaschi, denominato "Mostra del formaggio Bitto" che attira un numero elevatissimo di appassionati e curiosi, sia valligiani che turisti di tutto il mondo.

http://www.waltellina.com/manifestazioni/fieradelbitto/index.htm

lunedì 6 ottobre 2008

A un anno di distanza

A un anno di distanza mi sento di ringraziare chi visita, per curiosità, per ricerca, per amicizia, per lavoro, questo spazio, e in particolare chi lo commenta, sia gli amici che lo fanno assiduamente sia quelli che lo fanno in modo saltuario. Anche a settembre più di 2000 volte benvenuti!

I precursori utilizzano questo strumento, come diario personale, da qualche anno, i neofiti, come me, solo da un anno. A questo punto, a un anno di distanza, mi sento di ringraziare una persona straordinaria che l'anno scorso mi disse "ma Fabio con tutte quelle cose che hai scritto in passato, e che scrivi, perché non fai un blog...", e così iniziai a riprendere vecchi scritti e metterli in rete.

A un anno di distanza questo strumento, come molti altri della rete, è divenuto quasi di uso comune, tanto da fare riflettere sulla sua reale utilità. Spuntano blog ovunque, basta pensare che nel mio piccolo villaggio solo a sfondo politico sociale ce ne circa una decina, poi ovviamente quelli personali, moltissimi, ma le cose continuano ad andare avanti come sempre, con i soliti a controllare la vita dei molti, con i soliti problemi, con i soliti volti.
Certamente è difficile aggiornare uno spazio come questo, soprattutto se per scelta si cerca di non riempirlo di foto, di filmati, di scritti di altri (al limite di lettere aperte e pubbliche che arrivano nella mia casella di posta elettronica), e se di professione non si fa il giornalista, magari di una testata locale, ma l'architetto. E' difficile ma è giusto continuare e continuare in tanti, ciascuno a suo modo, chi con una poesia di altri, chi con un bell'articolo, chi con un video o una canzone, perché in questo mondo globale dove tutti sanno tutto di tutti, nessuno parla più, nessuno incontra più, e solo pochi hanno la forza di uscire la sera, o magari più sere, non per interessi personali ma solamente per cercare di cambiare le cose, di farle andare meglio? non so, magari anche solo per sentirsi vivi.

La mattanza del Villoresi - parte 2

Da semplice segnalazione, anche, se volte, un poco ironica, mi accorgo con stupore e con gioia di non essere il solo ad accorgermi di alcune cose. Sono sempre più convinto che al mondo non ci siano super oumini e super geni, o unti dal Signore, ma solamente persone con sensibilità diverse, magari anche molto diverse. Certo è che se queste persone iniziassero a dialogare tra loro, e quindi con altre sensibilità anche diverse (vedi post sull'identità dialogante, mese di settembre), non arroccandosi su posizioni predefinite, o peggio preconfezionate da altri, beh sono sicuro che tutti noi ne trarremmo beneficio e che probabilmente avremmo un mondo migliore...

Insomma, una questione come quella che ho cercato di descrivere se volete anche con una certa ironia è evidente che è una questione di secondo piano rispetto tante altre che affliggono il nostro territorio, speculazione edilizia (a Nerviano in questi giorni ritornata in primo piano con la questione del "Fungo"), consumo selvaggio del territorio, situazione economica, situazione politica italiana (deprimente), mancanza quasi totale di cultura architettonica, ecc, ma è anche un esempio di cattiva gestione del territorio.
Sabato abbiamo organizzato una gara di duathlon tra i campi del villaggio in cui vivo. E' chiaro che alcuni conservatori di territorio verde potrebbero pensare che si tratta di un intervento poco ecologico (correre nei campi a piedi e in MTB, piantare picchetti, tracciare con nastri bianchi e rossi il percorso, ecc), e che magari sarebbe più educativo portare i ragazzi a far conoscere le piante, i canali, i boschi, ma io credo che anche quella sia una forma felice e intelligente di riappropriamento del nostro territorio, di riradicamento in una terra che ci è stata tramandata come una delle più belle d'Europa e che noi stiamo rapidamente distruggendo a colpi di varianti di PRG, o con manufatti di pessima qualità architettonica - fabbriche di soldi - con strade inutili e sempre congestionate o con interventi sulla città storica insensibili alla storia e al passato dei luoghi.
Chiudo la questione del Canale con una battuta di un amico: potevi organizzare la sagra del pesce al posto del duathlon... Almeno saremmo tornati a dare un senso a quell'inutile mattanza.















Ricevo e pubblico volentieri:

In merito a tale segnalazione, ho avuto modo di leggere un articolo pertinente su "Il Cittadino" del 2 ottobre (in allegato). Si tratta dell'ennesimo segnale di una trascuratagestione del territorio e delle sue valenze, oltre ad una inutile e vergognosa sofferenza causata ad altri esseri viventi. Cordiali saluti.

Mirco Cappelli
Redazion El Dragh Bloeu

venerdì 3 ottobre 2008

In risposta alla mattanza del Villoresi

Ricevo e pubblico volentieri dalla Redazion El Dragh Bloeu

Caro Fabio,

apprezziamo davvero la simpatia che dimostri per le nostre idee e la pubblicità che ne fai sul tuo sito.
La questione che ci segnali è sicuramente grave. Io frequento i paesi in riva al Villoresi e vedo qual è la situzione.
L'unica cosa che ti possiamo dire è che finchè un movimento di opinione sufficientemente grande non influenzerà la politica, le cose non cambieranno. Domà Nunch nasce proprio per ribaltare la scala di priorità della nostra gente, o meglio riportarla al buon senso. Questo è l'econazionalismo, ovvero il pensare prima alla nostra Nazione (umana, animale e inanimata, senza confini), e annullare i tentativi di monetizzare anche questi valori, che noi riteniamo sacri di per sè. E poi, se le terre, le acque, i pesci muoiono, allora ben presto anche noi, come cultura, come popolo e infine come individui, abbiamo poco da ridere.
Io però credo che vi sia una speranza.
In attesa di trovarti a una delle nostre prossime iniziative a Nerviano, ti saluto cordialmente

Matteo Colaone
Associazione econazionalista Domà Nunch


Suta el puunt in de dorma el sass, passa l'unda cumè una früsta
passa el veent in de la cà del ragn e la lüserta equilibrista,
rüverà la rattapignoela e la nocc che la rastrèla el laagh
tüta l'acqua la paar catràmm... suta el puunt ghe sun dumà me...
Disi cume mai ... seet gnamò rüvada e me lasset che insèma ai tocch de legn
gh'è dumà el riflèss de la lüüs de Lèscen e poe gh'è un'umbria in soe'l tò balcòn
trema trema candela storta, trema foemm de la sigarèta,
trema coer che và innanz e indree...trema pass che fa pioe frecass....
quanti nocc suta sta finestra a sugnà de sultà deent
quanti nocc suta el puunt de 'Zzàn per basàss cumè düü assassén
Diisi cume mai me sun ché scundüü e sun ché a parlà insema ai ratt de fogna
mentre gh'é un omm in de la tua cà... senza la camisa e cul büceer in mànn
Te speciavi cun scià una roesa adess te speci cun scià un bastòn
la finestra la paar quel quadru che speravi de mai vedé
sun restaa foe del tò disègn, sun restaa foe de la curniis
sun restaa foe de la finestra e'l mè sogn el g'ha scià i valiis...
Disi cume mai ... seet gnamò rüvada e me lasset che insèma ai tocch de legn
gh'è dumà el riflèss de la lüüs de Lèscen e poe gh'è un'umbria in soe'l tò balcòn
Diisi cume mai me sun ché scundüü e sun ché a parlà insema ai ratt de fogna
mentre gh'é un omm in de la tua cà... senza la camisa e cul büceer in mànn
Suta el puunt in de dorma el sass passa l'unda cumé una früsta
passa el veent in de la cà del ragn e la lüserta equilibrista...
suta el puunt in de dorma el sass questa nocc durmiroo anca me
gh'è una roesa che sfida l'unda... e galégia anca el mè baston.

Davide van de Sfroos, El puunt