lunedì 23 febbraio 2009
Della crisi politica e dell'architettura
«Perchè tanto rischio per difendere un sistema così estraneo alle vere ragioni professate nella mia vita di artista...un sistema politico così contrario a tutto ciò che di sacro di bello di santo di giusto io ho sognato di vedere, di realizzare, di difendere? [...] per dimostrare che son pronto anche a correre il rischio della morte in guerra pur di conservare la mia indipendenza di uomo e di artista di fronte all'incalzante assedio politico che ci asfissia, che ci confonde, che ci umilia, che ci offende in un conformismo da gregge» [1].
Credo che oggi più che mai, in un momento politico come quello che sta affrontando l’Italia da qualche decennio, con una sinistra divisa, incapace di arrivare al cuore e al cervello della gente, perché incapace di superare personalismi, lotte intestine e con una classe dirigente poco amata – per dire un eufemismo, non se ne può proprio più infatti dei vari D’Alema, Fassino, Rutelli, Bindi, Finocchiaro, La Torre, Franceschini, Marini, ecc – incapace di autorinnovarsi e di aprirsi agli intellettuali o a nuovi volti, e con una destra rozza, spesso razzista, caciarona e attaccabrighe, unita e identificabile solo nel populismo televisivo da soubrette di prima serata del suo leader, queste parole di Giuseppe Pagano [2] tornano prepotentemente d’attualità.
Pagano come molti architetti italiani del novecento, tra gli altri Gardella, Terragni, Persico, era fascista. Come molti architetti credeva nella rivoluzione culturale fascista, credeva nella laicità dello stato e nella forza del cambiamento delle idee fasciste; credeva insomma nel passaggio da uno stato medioevale, che si reggeva sul precario equilibrio di forze tra casa Savoia e la Chiesa, in uno stato moderno. Ovviamente, dopo i primi pestaggi, gli assassini, con la soppressione delle libertà, o le scellerate politiche economiche e finanziarie, con le alleanze deliranti, anche gli architetti si accorsero, chi prima e chi poi, che il fascismo era tutto fuorché la medicina di cui aveva bisogno l’Italia uscita a pezzi dal risorgimento e dalla prima guerra mondiale, anzi era il cancro della società italiana.
Dirà prima di morire Carlo Rosselli: «gli italiani sono pigri moralmente, c’è in loro un fondo di scetticismo e di machiavellismo di basso rango che li induce a contaminare, irridendoli, tutti i valori, e a trasformare in commedia le più cupe tragedie. Abituati a ragionare per intermediari nei grandi problemi della coscienza è naturale che si rassegnino facilmente all’appalto anche nei grandi problemi della vita politica. L’intervento del Deus ex machina, del duce, del domatore – si chiami esso papa, re, Mussolini – risponde sovente ad una loro necessità psicologica» [3]. Dunque il fascismo, secondo Rosselli, assassinato dai fascisti, è un cancro interno alla società italiana, un bisogno latente di un qualcuno o un qualcosa che decida al posto nostro. Ma Rosselli si spinge oltre «il fascismo è, contro tutte le apparenze, il più passivo risultato della storia italiana. Gigantesco rigurgito di secoli e abbietto fenomeno di adattamento e di rinunzia. Mussolini trionfò per la quasi universale diserzione» [4] della società italiana.
È tuttavia certamente vero che un governo autoritario, sia esso democratico o dittatoriale, aiuta l’architettura, mentre l’indecisione o la finta democrazia inconcludente e incapace di prendere una qualsiasi, giusta o sbagliata, decisione la uccidono. Pensate alla democrazia statunitense, alla forza delle istituzioni americane e all’architettura che essa ha prodotto nel corso del novecento, o che sta producendo in questi anni – i migliori architetti lavorano e insegnano negli USA –; ma anche alla forza della nostra prima repubblica, almeno fino agli anni ’60, un momento in cui tutti insieme, democrazia cristiana e sinistra – la destra era ormai esclusa dal parlamento –, lavoravano sulle ceneri del fascismo per ricostruire l’Italia. E quindi vero che i primi anni del ventennio fascista rappresentarono uno dei periodi più importanti per gli architetti e per l’architettura italiana: un momento in cui essi erano da un lato aiutati dal regime per la costruzione di nuove case, quartieri, scuole, asili, ospedali, centri sportivi, ecc, dall’altro lasciati liberi di esprimersi e di sperimentare le nuove forme semplici del razionalismo italiano – l’ideologia e la visione populista e ridondante del “nuovo impero” non avevano ancora asfissiato e soffocato la cultura architettonica italiana, milanese, torinese e romana –.
Architettura e potere, architettura e decisionismo, architettura e possibilità concrete di fare.
Possibile che oggi in Italia non si riesca a fare nulla? Mentre infatti all’estero condannano chi lavorava negli anni ’80 con il nostro presidente del consiglio, in Italia lui stesso promuove o fa promuovere leggi che lo rendono impunibile e «nell’ora dell’abbandono di Veltroni i capi e i capetti, generali e caporali di questa armata allo sbando chiamata PD, danno il peggio di sé. Generali in fuga. Colonnelli tentati dal salto di grado ma impauriti da se stessi. Attendenti di campo in ritirata. Sfrecciano le berline, sorride tirata Giovanna Melandri, sorride più largo Pierluigi Bersani, considerato il candidato nuemero uno alla successione» [5] nel congresso d’autunno. Nel frattempo? Niente, non si fa niente, si sta a guardare e si aspetta che la crisi ci divori. Non fanno niente i governi centrali, non fanno nulla le Regioni se non sperperare i quattrini, pochi, che arrivano da Roma e Bruxelles, – pensate solo alla vicenda della Expo 2015, a quanto tempo stanno buttando per decidere a chi affidare le poltrone, quante ai ciellini, quante ai laici forzisti, ecc –, non fanno nulla neppure i Comuni! Già, anche i comuni, che fino a qualche anno fa erano una delle poche istituzioni che funzionavano, oggi sembrano paralizzati, tutti, siano essi di destra o di sinistra – non parliamo di Nerviano che è immobile e ripropone, se possibile tagliandolo, lo stesso programma triennale dei LL.PP. di tre anni prima perché non realizzato – sembrano immobili osservatori di una realtà che non cambia, se non sotto i colpi di qualche losco speculatore. Di fatto non si fanno più concorsi per scuole, centri sportivi, centri culturali, non si costruiscono case del popolo, o del fascio, o della cultura, piazze, non si pensa a quartieri pubblici, non si progetta e anzi chi ci prova, chi prova a lanciare un grido d’allarme, o una proposta viene subito accantonato.
Oggi è l’arte del non fare, è il momento dei burocrati, non è il momento per pensare o progettare. E chi meno fa è premiato dalla politica stessa. Cosa fare quindi? «Come reagire se non accettando tutti i rischi del giuoco per riconquistare quel prestigio che gli intellettuali italiani hanno perduto? [...] ideale intimo e segreto, carico di volontà come un bisogno assoluto di vita, di respiro, di aria, di libertà: il bisogno di ristabilire i valori capovolti [...] ma occorre avere le carte a posto per poter mettere sul tappeto tutti i grossi problemi di nuovo e daccapo, ed agire con tutta la disperata autorità degli ideali così cinicamente travisati e oltraggiati dal basso opportunismo politico... » [6].
[1] GIULIA VERONESI, Difficoltà politiche dell'architettura in Italia, 1920-1940, Politecnica Tamburini, Milano 1953, n.e. Christian Marinotti, 2008 pp. 46-47. La frase è di Giuseppe Pagano, del 1941.
[2] Giuseppe Pagano Pogatschnig nasce a Parenzo nel 1896. Dopo la Prima guerra mondiale, si iscrive al politecnico di Torino dove si laurea nel 1924. Dal 1931 è a Milano dove dirige insieme a Edoardo Persico la rivista Casa Bella. Collabora a diversi progetti, come il piano urbanistico "Milano verde", con altri architetti razionalisti, tra cui Franco Albini, Giancarlo Palanti, Ignazio Gardella, Irenio Diotallevi; tra le sue opere più importanti l’Istituto di Fisica dell’Università di Roma (1934), e la sede dell’Università Bocconi a Milano (1936-42).
Si arruola volontario nell'esercito e parte per la Seconda guerra mondiale, ma presto comprende l'impossibilità di conciliare il suo impegno civile e la sua visione della società con il Fascismo: entra così in contatto con il movimento partigiano e nel 1943 partecipa attivamente alla resistenza. Nel 1944 viene arrestato e deportato nel campo di concentramento di Mauthausen. Trasferito in un altro sottocampo, a Melk, e costretto a lavorare in miniera, muore il 22 aprile dell’anno successivo per le conseguenze di un pestaggio da parte di un guardiano.
[3] CARLO ROSSELLI, Socialismo liberale, introduzione e saggi critici di Norberto Bobbio, a cura di Jhon Rosselli, n.e. Einaudi, Torino, 1997, p. 112.
[4] Ibidem. 112.
[5] MARCO DAMILANO, Pasticcio democratico, articolo pubblicato su “L’espresso” n.8, del 26 febbraio 2009, p. 32.
[6] GIULIA VERONESI, Difficoltà…, p.32.
In foto, E.PERSICO, La Bella Italiana, progetto di copertina non realizzato per un volume dell'Editoriale Domus, 1934-35.
giovedì 19 febbraio 2009
A carnevale ogni scherzo vale...o quasi
LA POLIZIA LOCALE INFORMA CHE, DURANTE TUTTO IL PERIODO DI CARNEVALE E QUINDI FINO A SABATO 28.2.2009, E' VIETATO, SU TUTTO IL TERRITORIO COMUNALE, IN AREE PUBBLICHE, APERTE AL PUBBLICO O DI USO PUBBLICO, FARE USO DI BOMBOLETTE SPRAY CONTENENTI QUALSIASI TIPO DI SCHIUMA (AD ECCEZIONE DELLE BOMBOLETTE CONTENENTI STELLE FILANTI O SIMILARI), MANGANELLI O CLAVE DI PLASTICA MODIFICATE E DI PORRE IN ESSERE GIOCHI E/O SCHERZI CONSISTENTI NEL GETTO DI UOVA, FARINA, TALCO O DI QUALSIASI ALTRO OGGETTO O MATERIALE, AL FINE DI ARRECARE DISTURBO ALLE PERSONE O DI IMBRATTARE E DANNEGGIARE I BENI PUBBLICI O DI PRIVATI.
ORDINANZA N. 9 Comando Polizia Locale Prot. 3090 Tit IX cl. 4 Responsabile procedimento: Giammario Zinno. Comune di Nerviano.
Ah, beh Nerviano, la città verde, il regno della Lega...
No, non più.
Ah...
ORDINANZA N. 9 Comando Polizia Locale Prot. 3090 Tit IX cl. 4 Responsabile procedimento: Giammario Zinno. Comune di Nerviano.
Ah, beh Nerviano, la città verde, il regno della Lega...
No, non più.
Ah...
lunedì 16 febbraio 2009
Giulia Veronesi
«Queste mie pagine [...] vogliono essere unicamente un tentativo di ritrovare nella memoria i nodi del dramma che i nostri errori hanno stretti. Errori di cui non solo una folle dittatura va accusata, ma anche noi stessi, e la cui coscienza chiara è oggi una luce che ci guida di fronte alla forma diversa ma non meno oscura delle difficoltà antiche e nuove in cui viviamo, continuamente in crisi, continuamente pronti a porre gli altri in stato d'accusa: gli altri, una "società" che candidamente o ciecamente supponiamo esistere al di fuori e senza di noi, mentre non c'è un solo istante del vivere, in cui ognuno non sia, di se stesso e degli altri, responsabile»[1].
Una persona a me molto ma molto cara – e dicendo cara ne sminuisco lo spessore e l’importanza che ha avuto in questi anni, ma lei lo sa – mi ha mandato questa frase di Giulia Veronesi.
In un primo momento non ci ho fatto caso più di tanto e volevo pubblicarla così, fidandomi della sua intelligenza, poi l’ho riletta una volta, poi una seconda, poi una terza e come una bella ma difficile canzone ne ho capito il senso profondo e intimo. Quante volte nella vita ci capita di imbatterci in situazioni dove accecati dall’orgoglio dalla voglia di primeggiare, di arrivare, «continuamente pronti a porre gli altri in stato d'accusa» tendiamo a non accorgerci dei nostri errori e ad accusare gli altri di quanto succede invece di affrontarci con umiltà. È così in politica, nelle amministrazioni cittadine, nelle vicende personali. È stato così per certi versi, non per tutti gli italiani per il vero, negli anni dell’avvento della terribile dittatura fascista, è così oggi, o quasi, quando inermi assistiamo al teatrino della politica nazionale con dirigenti sempre più inadatti e poco rappresentativi della buona Italia [2], o quando ci rifiutiamo di affrontare noi stessi o quando rifiutiamo di farci aiutare [3]. Nella vita è invece fondamentale riconoscere i nostri errori, farci umili e chiedere aiuto, quegli errori di cui in primo luogo dobbiamo accusare «noi stessi», per poi attraverso una chiara presa di coscienza di essi, farci guidare verso una vita diversa, una diversa amministrazione, una diversa, speriamo migliore, struttura sociale.
[1] GIULIA VERONESI, Difficoltà politiche dell'architettura in Italia, 1920-1940, Politecnica Tamburini, Milano 1953, n.e. Christian Marinotti, 2008 p.32.
[2] Eugenio Scalfari, allora all’Europeo, scrisse che l’Italia non si meritava quella classe dirigente, erano gli anni ’50 e il peggio doveva ancora arrivare, una classe dirigente che non puniva la frode contro lo stato perché lei per prima frodava lo stato spesso e volentieri e più della popolazione. Sempre negli anni ’50 Indro Montanelli diceva pubblicamente che la classe dirigente italiana gli faceva “schifo”.
[3] L’uomo non è autosufficiente, l’autarchia, in tutti i settori, non è mai stata una buona idea e soprattutto non ha mai portato ai risultati attesi.
Una persona a me molto ma molto cara – e dicendo cara ne sminuisco lo spessore e l’importanza che ha avuto in questi anni, ma lei lo sa – mi ha mandato questa frase di Giulia Veronesi.
In un primo momento non ci ho fatto caso più di tanto e volevo pubblicarla così, fidandomi della sua intelligenza, poi l’ho riletta una volta, poi una seconda, poi una terza e come una bella ma difficile canzone ne ho capito il senso profondo e intimo. Quante volte nella vita ci capita di imbatterci in situazioni dove accecati dall’orgoglio dalla voglia di primeggiare, di arrivare, «continuamente pronti a porre gli altri in stato d'accusa» tendiamo a non accorgerci dei nostri errori e ad accusare gli altri di quanto succede invece di affrontarci con umiltà. È così in politica, nelle amministrazioni cittadine, nelle vicende personali. È stato così per certi versi, non per tutti gli italiani per il vero, negli anni dell’avvento della terribile dittatura fascista, è così oggi, o quasi, quando inermi assistiamo al teatrino della politica nazionale con dirigenti sempre più inadatti e poco rappresentativi della buona Italia [2], o quando ci rifiutiamo di affrontare noi stessi o quando rifiutiamo di farci aiutare [3]. Nella vita è invece fondamentale riconoscere i nostri errori, farci umili e chiedere aiuto, quegli errori di cui in primo luogo dobbiamo accusare «noi stessi», per poi attraverso una chiara presa di coscienza di essi, farci guidare verso una vita diversa, una diversa amministrazione, una diversa, speriamo migliore, struttura sociale.
[1] GIULIA VERONESI, Difficoltà politiche dell'architettura in Italia, 1920-1940, Politecnica Tamburini, Milano 1953, n.e. Christian Marinotti, 2008 p.32.
[2] Eugenio Scalfari, allora all’Europeo, scrisse che l’Italia non si meritava quella classe dirigente, erano gli anni ’50 e il peggio doveva ancora arrivare, una classe dirigente che non puniva la frode contro lo stato perché lei per prima frodava lo stato spesso e volentieri e più della popolazione. Sempre negli anni ’50 Indro Montanelli diceva pubblicamente che la classe dirigente italiana gli faceva “schifo”.
[3] L’uomo non è autosufficiente, l’autarchia, in tutti i settori, non è mai stata una buona idea e soprattutto non ha mai portato ai risultati attesi.
giovedì 12 febbraio 2009
Inno alla vita
Non darti in balìa della tristezza
e non tormentarti con i tuoi pensieri.
La gioia del cuore è la vita dell’uomo,
l’allegria dell’uomo è lunga vita.
Distraiti e consola il tuo cuore,
tieni lontana la profonda tristezza,
perché la tristezza ha rovinato molti
e in essa non c’è alcun vantaggio.
Gelosia e ira accorciano i giorni,
le preoccupazioni anticipano la vecchiaia.
Un cuore limpido e sereno si accontenta dei cibi
e gusta tutto quello che mangia.
mercoledì 11 febbraio 2009
Trilussa e la fede
Quella vecchietta cieca, che incontrai
la sera che mi spersi in mezzo ar bosco,
me disse: "Se la strada nun la sai
te ciaccompagno io, che la conosco.
Se ciai la forza de venimme appresso
de tanto in tanto te darò na voce,
fino là in fonno, dove c'è un cipresso,
fino là in cima, dove c'è una croce".
Io risposi: "Sarà … ma trovo strano
che me possa guidà chi nun ce vede…".
La cieca, allora, me pijò la mano
e sospirò: "Cammina". Era la fede.
(Trilussa)
Dall'udienza generale di papa Giovanni Paolo I del 13 settembre 1978.
la sera che mi spersi in mezzo ar bosco,
me disse: "Se la strada nun la sai
te ciaccompagno io, che la conosco.
Se ciai la forza de venimme appresso
de tanto in tanto te darò na voce,
fino là in fonno, dove c'è un cipresso,
fino là in cima, dove c'è una croce".
Io risposi: "Sarà … ma trovo strano
che me possa guidà chi nun ce vede…".
La cieca, allora, me pijò la mano
e sospirò: "Cammina". Era la fede.
(Trilussa)
Dall'udienza generale di papa Giovanni Paolo I del 13 settembre 1978.
martedì 10 febbraio 2009
Vergogna
Purtroppo gravi e inaspettati, ma spero superabili, problemi personali mi stanno giustamente distogliendo dallo scrivere, dal pensare ad altro che non a me stesso e soprattutto alle persone implicate in questa mia vicenda (che non puo' essere pubblica), a cui voglio molto bene. Mi limiterò pertanto, se riesco, a riplubbicare cose che mi arrivano e che condividendole faccio mie.
Vi prego di scusarmi, cercherò di tornare quanto prima, non abbandonate questo luogo, anche se nel web 2.0 sarebbe cosa normale. Al limite rileggiamo insieme le cose "antiche".
Ricevo e pubblico volentieri dall'associazione Domà Nunch.
L'assessore regionale all'Ambiente della giunta Formigoni, Massimo Ponzoni (Forza Italia), non passerà certo alla storia per la tutela del paesaggio insubre, ma per la condanna ad abbattere due villette abusive perché costruite su un terreno agricolo non edificabile a Cesano Maderno, in Brianza. La prima intestata alla moglie Annamaria Cocozza. La seconda abitata dal cognato Argenio Cocozza e dalla suocera Maria Cacioppo.
Per maggiori dettagli:
http://milano.repubblica.it/dettaglio/Il-Tar-condanna-lassessore-allAmbiente-Abbattete-le-sue-case-abusive/1585425
Vi prego di scusarmi, cercherò di tornare quanto prima, non abbandonate questo luogo, anche se nel web 2.0 sarebbe cosa normale. Al limite rileggiamo insieme le cose "antiche".
Ricevo e pubblico volentieri dall'associazione Domà Nunch.
L'assessore regionale all'Ambiente della giunta Formigoni, Massimo Ponzoni (Forza Italia), non passerà certo alla storia per la tutela del paesaggio insubre, ma per la condanna ad abbattere due villette abusive perché costruite su un terreno agricolo non edificabile a Cesano Maderno, in Brianza. La prima intestata alla moglie Annamaria Cocozza. La seconda abitata dal cognato Argenio Cocozza e dalla suocera Maria Cacioppo.
Per maggiori dettagli:
http://milano.repubblica.it/dettaglio/Il-Tar-condanna-lassessore-allAmbiente-Abbattete-le-sue-case-abusive/1585425
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