domenica 30 settembre 2007
Un pensiero per il Parco del Roccolo 2
(continua)
Il secondo giorno entriamo da Villapia.
Lascio la macchina nei pressi del canale Villoresi, in uno dei suoi punti più belli, dove dal Canale si dirama il secondario che porta acqua a Vanzago, Pregnana, Cornaredo, Bareggio. Proseguiamo in bicicletta per qualche chilometro lungo l’alzaia del Villoresi poi, lungo uno scolmatore, entriamo in territorio casorezzese, nel cuore del Roccolo.
Ogni tanto compaiono cartelli, il più delle volte ruggini o divelti, ogni tanto si incontrano persone a cavallo, in bicicletta, altri ancora che corrono e il mio amico Maurizio, presidente dell’atletica Casorezzo, dice che moltissimi podisti ogni giorno si allenano lungo quei sentieri e per questo gli piacerebbe che si costruisse un percorso guidato e segnalato.
Certo il percorso segnalato sarebbe un primo passo, ma percorrendo da dentro il Parco del Roccolo ci si accorge che qualcosa non funziona, o non ha funzionato negli anni. Non sono un esperto di pianificazione territoriale, sono un progettista, ma ci vuole poco a capire che qualcosa non va. Solo pochi comuni sentono loro propria la questione del parco? solo pochi comuni stanziano soldi per il parco? cattiva gestione – non tanto per i soldi, che nelle amministrazioni mancano sempre, ma nella programmazione o nella capacità progettuale, penso... –? Non so. Il fatto è che nella pancia del parco il Parco rimane l’unico grande assente.
Progettare un parco, mi dice un’amica, esperta nella pianificazione e dei parchi, è un lavoro da architetto, è come progettare una città, bisogna capire quali sono i percorsi principali, quali quelli secondari, capire dove fare i punti di sosta, i servizi, anche quelli igienici, dove realizzare punti di ristoro. Ricordo che qualche anno fa su un forum nervianese lanciammo l’idea di progettare dei ciringuiti da sistemare sul territorio e anche nel parco: cioè dei piccoli bar, estivi probabilmente, e smontabili l’inverno, magari da far gestire a giovani disoccupati, piccoli punti di aggregazione dove potersi bere un birra o una granita, durante le afose giornate estive. Bisogna poi studiare una segnaletica comune per tutto il parco, progettare futuri ampliamenti del parco stesso– penso all’area nervianese a nord del sempione, tra le frazioni del Comune –, promuovere realmente il parco nelle scuole e sul territorio.
Insomma pensare un parco è come pensare una città, con le sue vie, la segnaletica, i suoi punti di aggregazione, le piazze, e, perché no, i monumenti. Amministrare un parco è come amministrare una città, e quando i soldi scarseggiano e la gente sembra presa da altri mille pensieri, è il momento di inventarsi qualcosa e di organizzare un dibattito serio per capire come salvare un parco che lentamente sta morendo.
Il secondo giorno entriamo da Villapia.
Lascio la macchina nei pressi del canale Villoresi, in uno dei suoi punti più belli, dove dal Canale si dirama il secondario che porta acqua a Vanzago, Pregnana, Cornaredo, Bareggio. Proseguiamo in bicicletta per qualche chilometro lungo l’alzaia del Villoresi poi, lungo uno scolmatore, entriamo in territorio casorezzese, nel cuore del Roccolo.
Ogni tanto compaiono cartelli, il più delle volte ruggini o divelti, ogni tanto si incontrano persone a cavallo, in bicicletta, altri ancora che corrono e il mio amico Maurizio, presidente dell’atletica Casorezzo, dice che moltissimi podisti ogni giorno si allenano lungo quei sentieri e per questo gli piacerebbe che si costruisse un percorso guidato e segnalato.
Certo il percorso segnalato sarebbe un primo passo, ma percorrendo da dentro il Parco del Roccolo ci si accorge che qualcosa non funziona, o non ha funzionato negli anni. Non sono un esperto di pianificazione territoriale, sono un progettista, ma ci vuole poco a capire che qualcosa non va. Solo pochi comuni sentono loro propria la questione del parco? solo pochi comuni stanziano soldi per il parco? cattiva gestione – non tanto per i soldi, che nelle amministrazioni mancano sempre, ma nella programmazione o nella capacità progettuale, penso... –? Non so. Il fatto è che nella pancia del parco il Parco rimane l’unico grande assente.
Progettare un parco, mi dice un’amica, esperta nella pianificazione e dei parchi, è un lavoro da architetto, è come progettare una città, bisogna capire quali sono i percorsi principali, quali quelli secondari, capire dove fare i punti di sosta, i servizi, anche quelli igienici, dove realizzare punti di ristoro. Ricordo che qualche anno fa su un forum nervianese lanciammo l’idea di progettare dei ciringuiti da sistemare sul territorio e anche nel parco: cioè dei piccoli bar, estivi probabilmente, e smontabili l’inverno, magari da far gestire a giovani disoccupati, piccoli punti di aggregazione dove potersi bere un birra o una granita, durante le afose giornate estive. Bisogna poi studiare una segnaletica comune per tutto il parco, progettare futuri ampliamenti del parco stesso– penso all’area nervianese a nord del sempione, tra le frazioni del Comune –, promuovere realmente il parco nelle scuole e sul territorio.
Insomma pensare un parco è come pensare una città, con le sue vie, la segnaletica, i suoi punti di aggregazione, le piazze, e, perché no, i monumenti. Amministrare un parco è come amministrare una città, e quando i soldi scarseggiano e la gente sembra presa da altri mille pensieri, è il momento di inventarsi qualcosa e di organizzare un dibattito serio per capire come salvare un parco che lentamente sta morendo.
martedì 25 settembre 2007
Un pensiero per il Parco del Roccolo 2
Il mio primo approccio con la questione “Parco del Roccolo” risale ai tempi delle scuole superiori, quando con gli studenti dell’istituto Maggiolini di Parabiago, organizzai una raccolta di firme contro il progetto per un inceneritore nei campi tra Nerviano, Arluno, Parabiago, Casorezzo, ecc – o almeno all’epoca capimmo quello –. Anche per tutelare definitivamente quelle aree dalla speculazione edilizia e da progetti scellerati sorse il Parco del Roccolo.
Di recente, due anni fa, mi è capitato di ritornare sulla questione del Roccolo, quando un amico ingegnere, Maurizio, un bravo ingegnere, mi chiese se avevo voglia di aiutarlo in un progetto per alcuni cartelli segnaletici da posizionarsi nel parco. Fu così che iniziammo a studiare il parco da dentro, in bicicletta, per due giorni, con macchina fotografica, tra campi e canali, tra boschi, marcite e vecchie cascine.
Ma è proprio nella pancia del parco stesso che ci accorgemmo che c’era un grande assente: il Parco. C’erano i fagiani, i conigli selvatici, americani, come la robinia e l’ambrosia, che stanno colonizzando queste terre scacciando le lepri autoctone – sempre il solito vizio, questi americani, o questi inglesi? dove arrivano colonizzano, eheheh –, c’erano persone a cavallo o in bicicletta, a piedi o in mountain bike, c’erano i contadini che lavorano i campi e sistemano i canali, ma c’era anche un grande assente il PARCO.
Il Parco con i suoi cartelli, con le sue strutture ecosostenibili, ed ecocompatibili, il Parco con i suoi percorsi, le sue piazze, i suoi punti di sosta, sembra un progetto abbandonato da anni. Ogni tanto si incontra un cartello, ogni tanto si incontra un’indicazione, che poi dopo qualche centinaio di metri si perde, perché quella dopo è stata brutalmente divelta; quasi mai, tranne ad Arluno, si incontrano punti di sosta con legende e spiegazioni, con carte topografiche o tutto quello che si trova normalmente in un Parco.
Entrare nel Roccolo da Nerviano è poi un’impresa ardua – ma lo stesso vale per Parabiago, Villastanza, ecc –. Da dove si parte? Non esistono indicazioni, forse non sono mai esistite.
Partiamo il primo giorno da Nerviano. Frazione Cantone. Un vecchio borgo rurale fino qualche anno fa semidimenticato ma “vero”, con la sua struttura agricola, con i suoi due bar, uno da un lato dell’unica strada, uno dall’altro. Poi sul finire degli anni ottanta è arrivata la speculazione edilizia e Cantone è stata assediata dai palazzi fuori scala, e il borgo è stato brutalmente unito a Nerviano.
Da qualche anno il sottopasso della ferrovia di Stato che divide in due il territorio nervianese è stato chiuso e quindi come arrivare nel parco – che ovviamente sta dall’altra parte della ferrovia –?
Per una stradina sterrata, una traversa dell’unica strada di Cantone, si arriva a un sottopasso fantasma, a uso agricolo. Discesa ripida e altrettanto ripida risalita, e subito bivio. Dove andare? Non un indicazione.
Un giorno provi a destra e ti ritrovi, dopo varie peripezie, sulla strada provinciale che collega Rho, Pogliano, Parabigo, Busto Garolfo; un altro giorno vai a sinistra e dopo avere costeggiato una porcilaia ti ritrovi nuovamente sulla provinciale. Passi la provinciale e ti perdi. Le prossime indicazioni le trovi a tra Arluno, località Poglianasca, e a Villapia, ma niente di preciso. Il più delle volte indicano un percorso che non si capisce dove inizia e dove porta; quasi sempre le indicazioni stesse sono griffate da questa o quella società di atletica, di ciclismo, da questo o quel gruppo podistico.
(continua)
Di recente, due anni fa, mi è capitato di ritornare sulla questione del Roccolo, quando un amico ingegnere, Maurizio, un bravo ingegnere, mi chiese se avevo voglia di aiutarlo in un progetto per alcuni cartelli segnaletici da posizionarsi nel parco. Fu così che iniziammo a studiare il parco da dentro, in bicicletta, per due giorni, con macchina fotografica, tra campi e canali, tra boschi, marcite e vecchie cascine.
Ma è proprio nella pancia del parco stesso che ci accorgemmo che c’era un grande assente: il Parco. C’erano i fagiani, i conigli selvatici, americani, come la robinia e l’ambrosia, che stanno colonizzando queste terre scacciando le lepri autoctone – sempre il solito vizio, questi americani, o questi inglesi? dove arrivano colonizzano, eheheh –, c’erano persone a cavallo o in bicicletta, a piedi o in mountain bike, c’erano i contadini che lavorano i campi e sistemano i canali, ma c’era anche un grande assente il PARCO.
Il Parco con i suoi cartelli, con le sue strutture ecosostenibili, ed ecocompatibili, il Parco con i suoi percorsi, le sue piazze, i suoi punti di sosta, sembra un progetto abbandonato da anni. Ogni tanto si incontra un cartello, ogni tanto si incontra un’indicazione, che poi dopo qualche centinaio di metri si perde, perché quella dopo è stata brutalmente divelta; quasi mai, tranne ad Arluno, si incontrano punti di sosta con legende e spiegazioni, con carte topografiche o tutto quello che si trova normalmente in un Parco.
Entrare nel Roccolo da Nerviano è poi un’impresa ardua – ma lo stesso vale per Parabiago, Villastanza, ecc –. Da dove si parte? Non esistono indicazioni, forse non sono mai esistite.
Partiamo il primo giorno da Nerviano. Frazione Cantone. Un vecchio borgo rurale fino qualche anno fa semidimenticato ma “vero”, con la sua struttura agricola, con i suoi due bar, uno da un lato dell’unica strada, uno dall’altro. Poi sul finire degli anni ottanta è arrivata la speculazione edilizia e Cantone è stata assediata dai palazzi fuori scala, e il borgo è stato brutalmente unito a Nerviano.
Da qualche anno il sottopasso della ferrovia di Stato che divide in due il territorio nervianese è stato chiuso e quindi come arrivare nel parco – che ovviamente sta dall’altra parte della ferrovia –?
Per una stradina sterrata, una traversa dell’unica strada di Cantone, si arriva a un sottopasso fantasma, a uso agricolo. Discesa ripida e altrettanto ripida risalita, e subito bivio. Dove andare? Non un indicazione.
Un giorno provi a destra e ti ritrovi, dopo varie peripezie, sulla strada provinciale che collega Rho, Pogliano, Parabigo, Busto Garolfo; un altro giorno vai a sinistra e dopo avere costeggiato una porcilaia ti ritrovi nuovamente sulla provinciale. Passi la provinciale e ti perdi. Le prossime indicazioni le trovi a tra Arluno, località Poglianasca, e a Villapia, ma niente di preciso. Il più delle volte indicano un percorso che non si capisce dove inizia e dove porta; quasi sempre le indicazioni stesse sono griffate da questa o quella società di atletica, di ciclismo, da questo o quel gruppo podistico.
(continua)
lunedì 17 settembre 2007
Verso un confronto: la costruzione della pianura
Solo guardando la pianura dall’alto, o astraendosi e leggendola mediante una carta, ci si può accorgere del rapporto tra gli insediamenti della pianura e quella grande opera di ingegneria che è la pianura stessa, fatta di fiumi e laghi ma soprattutto di campi riquadrati dall’uomo, di canali artificiali, di villaggi. Solo attraverso una carta topografica si può capire come la pianura sia stata disegnata e strutturata secondo delle regole, e come molti edifici, o villaggi, che si sono costruiti nella pianura cerchino di rapportarsi tra loro proprio attraverso quelle regole.
La pianura è una sorta di grande macchina, di grande opera di ingegneria che annulla le singolarità e le particolarità. Essa è costruita pensata e realizzata per riorganizzare la vita dell’uomo e per realizzarne i desideri e i bisogni: i romani la disegnarono, la coltivarono e la trasformarono secondo la regola della suddivisione in centuriae, modificandone completamente l’assetto. Dall’area emiliana sino al milanese, dove centuriae e corsi naturali dei fiumi incrociavano le vie di comunicazione più importanti, la via Emilia, la Postumia, il Sempione, si formarono punti di sosta, piccoli insediamenti, che nel tempo divennero, grangie, castellazzi, cascinali, villaggi.
Con i suoi campi, i canali e le sue corti, quelle rurali e quelle urbane, le sue fabbriche, i suoi centri commerciali, la pianura può essere intesa quindi come un’opera dell’uomo. È per questo che approcciandosi al problema di un progetto nella pianura milanese, nel nostro territorio, non si può prescindere dallo studio della sua storia, della storia delle sue corti e da quel ripetersi ostinato di tipologie, schemi, misure, che sono da un lato legate alla cultura materica e insieme sono direttamente legate a un modello architettonico ben preciso e studiato nelle sue forme e nelle sue possibilità. L’architettura rurale non è così solo architettura povera, frutto dell’esperienza dell’uomo, ma è ripetizione di un modello architettonico, di uno schema probabilmente elaborato nella Milano sforzesca di Leonardo, Bramante e del Moro, e poi affinato tra il Settecento e l’Ottocento. La semplicità e il rigore delle nostre corti e delle nostre pianure è il risultato di un lungo travaglio, e di un instancabile ripetersi delle medesime forme nel tempo.
A fronte delle mille forme con cui oggi l’Architettura cerca di mostrarsi, nelle nuove costruzioni come nei progetti di arredo urbano, che insistono sempre con crescente e irresponsabile retorica sulla rottura e sulla discontinuità delle forme del passato, credo che progettisti, amministratori e istituzioni dovrebbero confrontarti, e insieme provare a fare uno sforzo comune perché i progetti possano ripartire dalla semplicità delle forme della storia, della tipoligia e degli schemi che compongono e strutturano i nostri territori, nel loro intenso e complesso rapporto con il passato. Come confrontarsi lo devono diregli amministratori di enti locali e comuni; certo che i "classici" spazi della politica vanno ripensati, resi più accessibili e appetibili, visto che non hanno prodotto quasi mai, negli ultimi cinquant'anni, soprattutto in Italia, un confronto sereno, aperto e soprattutto proficuo.
La pianura è una sorta di grande macchina, di grande opera di ingegneria che annulla le singolarità e le particolarità. Essa è costruita pensata e realizzata per riorganizzare la vita dell’uomo e per realizzarne i desideri e i bisogni: i romani la disegnarono, la coltivarono e la trasformarono secondo la regola della suddivisione in centuriae, modificandone completamente l’assetto. Dall’area emiliana sino al milanese, dove centuriae e corsi naturali dei fiumi incrociavano le vie di comunicazione più importanti, la via Emilia, la Postumia, il Sempione, si formarono punti di sosta, piccoli insediamenti, che nel tempo divennero, grangie, castellazzi, cascinali, villaggi.
Con i suoi campi, i canali e le sue corti, quelle rurali e quelle urbane, le sue fabbriche, i suoi centri commerciali, la pianura può essere intesa quindi come un’opera dell’uomo. È per questo che approcciandosi al problema di un progetto nella pianura milanese, nel nostro territorio, non si può prescindere dallo studio della sua storia, della storia delle sue corti e da quel ripetersi ostinato di tipologie, schemi, misure, che sono da un lato legate alla cultura materica e insieme sono direttamente legate a un modello architettonico ben preciso e studiato nelle sue forme e nelle sue possibilità. L’architettura rurale non è così solo architettura povera, frutto dell’esperienza dell’uomo, ma è ripetizione di un modello architettonico, di uno schema probabilmente elaborato nella Milano sforzesca di Leonardo, Bramante e del Moro, e poi affinato tra il Settecento e l’Ottocento. La semplicità e il rigore delle nostre corti e delle nostre pianure è il risultato di un lungo travaglio, e di un instancabile ripetersi delle medesime forme nel tempo.
A fronte delle mille forme con cui oggi l’Architettura cerca di mostrarsi, nelle nuove costruzioni come nei progetti di arredo urbano, che insistono sempre con crescente e irresponsabile retorica sulla rottura e sulla discontinuità delle forme del passato, credo che progettisti, amministratori e istituzioni dovrebbero confrontarti, e insieme provare a fare uno sforzo comune perché i progetti possano ripartire dalla semplicità delle forme della storia, della tipoligia e degli schemi che compongono e strutturano i nostri territori, nel loro intenso e complesso rapporto con il passato. Come confrontarsi lo devono diregli amministratori di enti locali e comuni; certo che i "classici" spazi della politica vanno ripensati, resi più accessibili e appetibili, visto che non hanno prodotto quasi mai, negli ultimi cinquant'anni, soprattutto in Italia, un confronto sereno, aperto e soprattutto proficuo.
martedì 11 settembre 2007
Un pensiero per il Parco del Roccolo
Un giorno passeggiando per Nerviano, cercando un’area interessante per un lavoro universitario, l’amico e professore Antonio Esposito mi chiese qual’è il prodotto tipico dell’area nervianese. Prontamente risposi: gli affettati di Auchan, i piatti caldi di Esselunga, gli scatolati a basso costo di Lidl. Dopo gli anni delle giunte creative e della speculazione edilizia selvaggia credo sia giunto il momento, per un’area che fu una delle spine dorsali dell’economia del Ducato di Milano prima e del nuovo stato unitario poi, di fermarsi e riflettere.
Le trasformazioni che a partire dalla fine dell’ottocento hanno interessato i territori tra Milano e Varese sono state rapidissime e radicali, spesso insensate. Da area a vocazione agricola, ad area tessile per eccellenza – la Manchester d’Italia di fine ottocento e inizio novecento –, ad area industriale, tra le altre l’Alfa Romeo e la raffineria di Rho-Pero, poi post industriale, ora i giganteschi centri logistici e i centri commerciali.
Ha ancora senso parlare quindi di prodotto tipico in un’area del genere? Forse no.
Certamente può avere senso parlare di caratterizzazione di un territorio, di dare, o di ridare, un carattere a questa zona. Potrebbe essere un occasione, certo a essere onesti, per chi conosce un poco la vicenda e per chi ha mai provato ad addentrarsi al suo interno, sarebbe meglio dire un occasione “poteva essere un occasione” il parco del Roccolo (http://www.parcodelroccolo.it/) – un parco nato per frenare speculazioni edilizie e politiche su una delle poche aree ancora verdi tra Sempione, Olona, Villoresi –. Mala gestione, mala amministrazione, scarsa volontà da parte dei politici di provare a capire come gestire, e soprattutto cosa farsene del parco, hanno portato a una situazione imbarazzante e ormai, credo, al limite del ridicolo: il parco c’è, ma non c’è. Cosa fare quindi?
Uno degli interessi principali della nobiltà milanese a partire dal quattrocento, durante gli anni della dinastia sforzesca, era costituito dalla vinificazione e soprattutto dal controllo della vendemmia, tanto che il periodo preferito per la villeggiatura nelle campagne era per lo più l’autunno. I terreni delle zone tra il Naviglio Grande e le Groane, a nord di Milano, terreni sostanzialmente asciutti, dai censimenti catastali settecenteschi appaiono coltivati intensamente a vite, con grani e foraggi, alternati a filari di vite.
Fu durante il periodo di Ludovico il Moro che si insediò nel territorio a nord di Milano il tipo della “cascina villa” – che con le sue corti nobili collegate direttamente a quelle agricole, con i suoi portici, i fienili, le cantine, i granai, le stalle, le cascine, le colombaje, rappresenta un tipo architettonico che può definirsi tipicamente milanese – e che si sviluppò la vocazione vinicola delle zone bagnate dall’Olona. La cascina villa era il centro della vendemmia.
Oggi la vite, dopo i problemi creati dalla comparsa di due parassiti, l’oidio e della fillossera, e dopo l’industrializzazione novecentesca, è totalmente scomparsa dalla campagna milanese, ma ancora durante tutto il settecento era diffusissima.
Ora, ripensando alla domanda dell’amico Antonio, su quale prodotto potrebbe essere considerato prodotto tipico, su cosa si potrebbe, in un futuro, puntare per rilanciare e ricaratterizzare una zona che sembra avere perso la propria anima, beh forse una risposta la inizio a intravedere... È così pazzesco pensare a un progetto di reintroduzione della vite e della vinificazione nella nostra zona – in realtà so che, a fatica, il parco del Roccolo ci sta già provando –?
Le trasformazioni che a partire dalla fine dell’ottocento hanno interessato i territori tra Milano e Varese sono state rapidissime e radicali, spesso insensate. Da area a vocazione agricola, ad area tessile per eccellenza – la Manchester d’Italia di fine ottocento e inizio novecento –, ad area industriale, tra le altre l’Alfa Romeo e la raffineria di Rho-Pero, poi post industriale, ora i giganteschi centri logistici e i centri commerciali.
Ha ancora senso parlare quindi di prodotto tipico in un’area del genere? Forse no.
Certamente può avere senso parlare di caratterizzazione di un territorio, di dare, o di ridare, un carattere a questa zona. Potrebbe essere un occasione, certo a essere onesti, per chi conosce un poco la vicenda e per chi ha mai provato ad addentrarsi al suo interno, sarebbe meglio dire un occasione “poteva essere un occasione” il parco del Roccolo (http://www.parcodelroccolo.it/) – un parco nato per frenare speculazioni edilizie e politiche su una delle poche aree ancora verdi tra Sempione, Olona, Villoresi –. Mala gestione, mala amministrazione, scarsa volontà da parte dei politici di provare a capire come gestire, e soprattutto cosa farsene del parco, hanno portato a una situazione imbarazzante e ormai, credo, al limite del ridicolo: il parco c’è, ma non c’è. Cosa fare quindi?
Uno degli interessi principali della nobiltà milanese a partire dal quattrocento, durante gli anni della dinastia sforzesca, era costituito dalla vinificazione e soprattutto dal controllo della vendemmia, tanto che il periodo preferito per la villeggiatura nelle campagne era per lo più l’autunno. I terreni delle zone tra il Naviglio Grande e le Groane, a nord di Milano, terreni sostanzialmente asciutti, dai censimenti catastali settecenteschi appaiono coltivati intensamente a vite, con grani e foraggi, alternati a filari di vite.
Fu durante il periodo di Ludovico il Moro che si insediò nel territorio a nord di Milano il tipo della “cascina villa” – che con le sue corti nobili collegate direttamente a quelle agricole, con i suoi portici, i fienili, le cantine, i granai, le stalle, le cascine, le colombaje, rappresenta un tipo architettonico che può definirsi tipicamente milanese – e che si sviluppò la vocazione vinicola delle zone bagnate dall’Olona. La cascina villa era il centro della vendemmia.
Oggi la vite, dopo i problemi creati dalla comparsa di due parassiti, l’oidio e della fillossera, e dopo l’industrializzazione novecentesca, è totalmente scomparsa dalla campagna milanese, ma ancora durante tutto il settecento era diffusissima.
Ora, ripensando alla domanda dell’amico Antonio, su quale prodotto potrebbe essere considerato prodotto tipico, su cosa si potrebbe, in un futuro, puntare per rilanciare e ricaratterizzare una zona che sembra avere perso la propria anima, beh forse una risposta la inizio a intravedere... È così pazzesco pensare a un progetto di reintroduzione della vite e della vinificazione nella nostra zona – in realtà so che, a fatica, il parco del Roccolo ci sta già provando –?
lunedì 10 settembre 2007
Un pensiero tra rovina e città moderna
Il rapporto tra monumenti, rovine e vita quotidiana è una questione che sembra «improponibile oggi, anche se l’incuria e il degrado del nostro patrimonio monumentale sono sotto gli occhi di tutti»[1]. Il moltiplicarsi degli scavi e delle scoperte archeologiche, e la crescente importanza della dimensione sotterranea della città, hanno prodotto un sistema diffuso di cicatrici e di ferite: irrisolti spazi di risulta della città moderna, a testimoniare il grave dissidio tra sistemazione architettonica, esigenze di scientificità della conservazione e proseguimento delle campagne di scavo.
Dove proseguire gli scavi? È possibile intendere lo scavo non solo come strumento per cercare nelle viscere dei luoghi la diretta testimonianza di un passato ormai sepolto, ma anche come momento evocativo della città antica e fondativo di quella contemporanea? Esiste infine un rapporto diretto tra gli edifici e il passato che i luoghi in cui sorgono nascondono: «quel passato nel quale inevitabilmente ci imbattiamo quando inizia il primo lavoro richiesto dalla costruzione, cioè lo scavo che precede il processo di fondazione»[2]?
L’instaurarsi di una logica dell’emergenza in occasione di qualsiasi ritrovamento antico, ha finito col disseminare la città contemporanea di un gran numero di ruderi e strutture informi di difficile identificazione, spesso circoscritti da recinzioni e sbarramenti. Riallacciare il rapporto tra composizione architettonica e archeologia urbana, non significa limitarsi «a perseguire compiti come quelli della protezione e dell’ambientamento dei ruderi, ma, al contrario, farsi protagonisti di una “azione sovversiva”. Smontando le apparenti coerenze, isolando i singoli frammenti e riconoscendone l’appartenenza alle diverse sezioni della città stratificata il progetto può identificare le cose e i diversi sistemi formali a cui fanno riferimento»[3].
Cosa intendere quindi per rovina? Rovina può essere un piccolo oratorio abbandonato e trasformato, o una corte assediata da palazzi e villette, rovina è il sedime della strada antica che persiste alle trasformazioni della città; non necessariamente per rovina dobbiamo intendere il grande manufatto classico caduto, appunto, in rovina. Da qui deriva la ferma volontà di riscoprire il senso del passato nella città contemporanea: quel passato che ha perso il suo carattere originario e fondativo, ma che è custodito all’interno della città, quel passato dal quale imparare per costruire la città nuova.
[1] Giorgio Grassi, Teatro Romano di Brescia. Progetto di restituzione e riabilitazione, Documenti di Architettura, Electa, Milano, 2003, p. 7.
[2] Rafael Moneo, La solitudine degli edifici e altri scritti, Vol. II, Sugli architetti e il loro lavoro, Umberto Allemandi & C., Torino, 2004, p. 95.
[3] Angelo Torricelli, Memoria e immanenza dell’antico nel progetto urbano, in Aa.Vv., Archeologia urbana e progetto di architettura, seminario di studi tenutosi a Roma, dal 1 al 2 dicembre 2000, a cura di Maria Margarita Segarra Lagunes, Gangemi Editore, Roma, 2002, pp. 217-236, la citazione da p. 218.
Dove proseguire gli scavi? È possibile intendere lo scavo non solo come strumento per cercare nelle viscere dei luoghi la diretta testimonianza di un passato ormai sepolto, ma anche come momento evocativo della città antica e fondativo di quella contemporanea? Esiste infine un rapporto diretto tra gli edifici e il passato che i luoghi in cui sorgono nascondono: «quel passato nel quale inevitabilmente ci imbattiamo quando inizia il primo lavoro richiesto dalla costruzione, cioè lo scavo che precede il processo di fondazione»[2]?
L’instaurarsi di una logica dell’emergenza in occasione di qualsiasi ritrovamento antico, ha finito col disseminare la città contemporanea di un gran numero di ruderi e strutture informi di difficile identificazione, spesso circoscritti da recinzioni e sbarramenti. Riallacciare il rapporto tra composizione architettonica e archeologia urbana, non significa limitarsi «a perseguire compiti come quelli della protezione e dell’ambientamento dei ruderi, ma, al contrario, farsi protagonisti di una “azione sovversiva”. Smontando le apparenti coerenze, isolando i singoli frammenti e riconoscendone l’appartenenza alle diverse sezioni della città stratificata il progetto può identificare le cose e i diversi sistemi formali a cui fanno riferimento»[3].
Cosa intendere quindi per rovina? Rovina può essere un piccolo oratorio abbandonato e trasformato, o una corte assediata da palazzi e villette, rovina è il sedime della strada antica che persiste alle trasformazioni della città; non necessariamente per rovina dobbiamo intendere il grande manufatto classico caduto, appunto, in rovina. Da qui deriva la ferma volontà di riscoprire il senso del passato nella città contemporanea: quel passato che ha perso il suo carattere originario e fondativo, ma che è custodito all’interno della città, quel passato dal quale imparare per costruire la città nuova.
[1] Giorgio Grassi, Teatro Romano di Brescia. Progetto di restituzione e riabilitazione, Documenti di Architettura, Electa, Milano, 2003, p. 7.
[2] Rafael Moneo, La solitudine degli edifici e altri scritti, Vol. II, Sugli architetti e il loro lavoro, Umberto Allemandi & C., Torino, 2004, p. 95.
[3] Angelo Torricelli, Memoria e immanenza dell’antico nel progetto urbano, in Aa.Vv., Archeologia urbana e progetto di architettura, seminario di studi tenutosi a Roma, dal 1 al 2 dicembre 2000, a cura di Maria Margarita Segarra Lagunes, Gangemi Editore, Roma, 2002, pp. 217-236, la citazione da p. 218.
domenica 9 settembre 2007
Cosa fare oggi?
Severino in Tecnica e Architettura sostiene, credo a ragione, che oggi ci troviamo immersi nella civiltà della tecnica: la gente ha rispetto per la tecnica, nessuno si pone il problema di sostituire un luminare della tecnica, perché ognuno sa di non sapere la tecnica dell’altro. Mi riferisco a una persona comune che difficilmente si sostituirebbe a un ingegnere per costruire ponti, a un fisico per studiare la materia, se vogliamo anche a un professore di italiano, proprio perché non conoscerebbe la sua tecnica. Pensate invece alla religione: tutti pensano di poter dire la loro, senza studiarla, meditarla, approfondirla (io per primo mi sento in debito verso questi studi), perché sembra una materia non tecnica. Ma pensate anche alle pratiche d’arte: ci si ferma e ciascuno riconosce i propri limiti, davanti alla tecnica del musicista, allo spartito, alla tecnica del pittore: dove invece è composizione, è pensiero e filosofia, allora non ci si ferma. È un atteggiamento tipico della post-modernità. Pensate all'architettura: sembra che da qualche decennio le questioni architettonica e progettuale siano divenute di dominio pubblico, nel senso che tutti pensano di poterle controllare.
Cosa fare quindi? Cosa fare in una città assediata dalle villette gialle con gli archi e i portici, o dai centri commerciali? Cosa fare in una città dove troppo pochi, tre o quattro al massimo, gestiscono il 95% dei progetti, quindi la trasformazione della città stessa? Ci fu un momento, all’inizio del XX, secolo in cui filosofi, scultori, pittori e architetti conducevano programmi via radio per far capire cosa si intendeva per composizione e cos’era la modernità. Si potrebbe quindi pensare quindi di organizzare incontri pubblici, concorsi, mostre, o di costruire e divulgare publicazioni, articoli sul giornale cittadino (dove finalmente si parli anche di modernità e non solo di storia medioevale). Si potrebbe poi anche cercare di alzare il livello della "produzione architettonica" proprio attraverso interventi comunali “alti”, penso a restauri colti (come è stato fatto per l’ex convento degli Olivetani a Nerviano), a scuole moderne (ma già una o due occasioni sono andate perdute), a interventi su piazze fatte con sapienza, a lavori assegnati per concorso, di idee o di progettazione, ...
Cosa fare quindi? Cosa fare in una città assediata dalle villette gialle con gli archi e i portici, o dai centri commerciali? Cosa fare in una città dove troppo pochi, tre o quattro al massimo, gestiscono il 95% dei progetti, quindi la trasformazione della città stessa? Ci fu un momento, all’inizio del XX, secolo in cui filosofi, scultori, pittori e architetti conducevano programmi via radio per far capire cosa si intendeva per composizione e cos’era la modernità. Si potrebbe quindi pensare quindi di organizzare incontri pubblici, concorsi, mostre, o di costruire e divulgare publicazioni, articoli sul giornale cittadino (dove finalmente si parli anche di modernità e non solo di storia medioevale). Si potrebbe poi anche cercare di alzare il livello della "produzione architettonica" proprio attraverso interventi comunali “alti”, penso a restauri colti (come è stato fatto per l’ex convento degli Olivetani a Nerviano), a scuole moderne (ma già una o due occasioni sono andate perdute), a interventi su piazze fatte con sapienza, a lavori assegnati per concorso, di idee o di progettazione, ...
Tra antico e moderno, tra rovina e progetto
Lukacs in Breve storia della letteratura tedesca osserva: «[…] il fascismo hitleriano si è abbattuto sulla cultura tedesca come una tempesta annientatrice. Che cosa ne sia stato distrutto, fino a che punto lo sviluppo culturale della Germania sia stato ricacciato indietro da Hitler, si potrà valutare in modo completo solo quando ricomincerà […] la ricostruzione spirituale, morale e culturale della Germania». (György Lukács). Fino a che punto anche il nostro fascismo può avere cancellato la nostra memoria?
Ricordo che mia nonna non conosceva nulla dell’antica chiesina, non ricordava nulla del vecchio borgo. Ricordava benissimo invece la ginnastica fattale praticare da “giovane italiana”, gli inni, le sfilate, la guerra, la fame.
Il caso dell’antico Oratorio de santi Biagio e Francesco non è un caso importantissimo, dalle nobili origini, e non vuole porre Garbatola al centro di chissà quale vicenda, è solo un caso studio, un caso emblematico di un modo diverso di approcciare la storia e di ricostruire la memoria. Dopo anni in cui si è cercato di ricostruire una storia fatta di «[…] damigelle e di frusciare di merletti […]», o di nomi altisonanti, come l’imperatore Nerva o l’imperatore Federico I, è ora il momento di provare a ricostruire una storia reale, non una storia che serva a ricordare i bei tempi passati, ma a risistemare le cose nella nostra memoria collettiva.
Il netto prevalere del valore storico della rovina, del suo valore di testimonianza sul piano storico-architettonico, rispetto quello artistico, cioè sul valore del manufatto visto come opera d’arte ci aiuta nel costruire una storia realista e insieme introduce la questione del progetto: la rovina intesa cioè come punto di partenza e come punto di arrivo. E così solo pensando al valore progettuale della rovina che potremo intendere la ricchezza che in realtà essa custodisce.
La presenza della rovina antica, cioè di un edificio reale, o di ciò che ne resta, di colpo può diventare la pietra di paragone per un nuovo progetto sul manufatto e sulla città. Progetto che può quasi demandare all’edificio antico le risposte che noi moderni non siamo più in grado di, senza per questo dover fingere a tutti i costi che queste risposte gli appartengono. «E così il vecchio diventa una parte inseparabile del nuovo: complementare, proprio per il suo essere una versione sperimentata della virtualità espressa dalla forma imperfetta del nuovo» (Giorgio Grassi).
Ricordo che mia nonna non conosceva nulla dell’antica chiesina, non ricordava nulla del vecchio borgo. Ricordava benissimo invece la ginnastica fattale praticare da “giovane italiana”, gli inni, le sfilate, la guerra, la fame.
Il caso dell’antico Oratorio de santi Biagio e Francesco non è un caso importantissimo, dalle nobili origini, e non vuole porre Garbatola al centro di chissà quale vicenda, è solo un caso studio, un caso emblematico di un modo diverso di approcciare la storia e di ricostruire la memoria. Dopo anni in cui si è cercato di ricostruire una storia fatta di «[…] damigelle e di frusciare di merletti […]», o di nomi altisonanti, come l’imperatore Nerva o l’imperatore Federico I, è ora il momento di provare a ricostruire una storia reale, non una storia che serva a ricordare i bei tempi passati, ma a risistemare le cose nella nostra memoria collettiva.
Il netto prevalere del valore storico della rovina, del suo valore di testimonianza sul piano storico-architettonico, rispetto quello artistico, cioè sul valore del manufatto visto come opera d’arte ci aiuta nel costruire una storia realista e insieme introduce la questione del progetto: la rovina intesa cioè come punto di partenza e come punto di arrivo. E così solo pensando al valore progettuale della rovina che potremo intendere la ricchezza che in realtà essa custodisce.
La presenza della rovina antica, cioè di un edificio reale, o di ciò che ne resta, di colpo può diventare la pietra di paragone per un nuovo progetto sul manufatto e sulla città. Progetto che può quasi demandare all’edificio antico le risposte che noi moderni non siamo più in grado di, senza per questo dover fingere a tutti i costi che queste risposte gli appartengono. «E così il vecchio diventa una parte inseparabile del nuovo: complementare, proprio per il suo essere una versione sperimentata della virtualità espressa dalla forma imperfetta del nuovo» (Giorgio Grassi).
sabato 8 settembre 2007
Un pensiero per Nerviano
Qual’è l’esempio più significativo della cultura moderna, del novecento, o se vogliamo del periodo che inizia con la fine della prima guerra, a Nerviano? Probabilmente qualcuno direbbe la torre, altri, dagli occhi più attenti, direbbero le manifatture (ad esempio la pur devastata Bernocchi, o l’ex Unione Manifatture, di cui si è già detto), altri ancora, i più sensibili, alcuni palazzi in zona “Gescal” costruiti sulla base di un ben più famoso edificio di I. Gardella. In ogni caso, a differenza di altri paesi, lo sforzo della ricerca risulterebbe notevole, quasi impossibile. Le poche ville razionaliste sono state devastate da interventi di ampliamento e di "recupero dei sottotetti". Si può quindi affermare che a fronte di edifici antichi di pregevole fattura, ad esempio le chiese rinascimentali e borromaiche, il convento, le ville settecentesche, ecc, non si trovano esempi significativi della cultura moderna e soprattutto contemporanea. A questo punto forse è utile chiarire, che per moderno, banalmente, si può intendere quella tendenza semplificatrice dell’arte figurativa tradizionale, ma non solo (pensate agli usi, ai costumi, i vestiti), che si sviluppò nell’Austria di inizio ‘900, per cui si passò da “forme sfarzose” e “colorate”, a linee “semplici ed essenziali” (sono fondamentali gli scritti di A.Loos e K.Kraus). Forse proprio la mancanza di esempi significativi (...non vale la pochezza dell’ex Municipio, se, considerati i dati di Parini, effettivamente fu costruito in anni in cui si formavano e già operavano maestri del calibro di Terragni, Gardella, Mollino, oppure Le Corbusier, Taut, Mies, ecc) della cultura moderna in Nerviano potrebbe aprire un serio tavolo di dibattito e confronto. Sembra quasi che da un lato Nerviano conservi, giustamente, il suo spirito nobile e antico, mentre dall’altro sembra che si sia chiusa a riccio su quei ricordi, non riuscendo, o non volendo, da questi ripartire.
Nerviano come specchio della situazione italiana generale, dove oggi, a fronte di un passato glorioso, si fa davvero poco, pochissimo, quasi nulla. Viviamo in una situazione difficile e imbarazzante, come di sdoppiamento: gli italiani sono come moderni in una realtà (solo) antica. Cosa lasceremo oltre ai piani regolatori che hanno distrutto un paese, redatti da politici incompetenti, forse le villette con gli archetti e i finti capitelli, o forse l’edilizia speculativa degli immobiliaristi?
Nerviano come specchio della situazione italiana generale, dove oggi, a fronte di un passato glorioso, si fa davvero poco, pochissimo, quasi nulla. Viviamo in una situazione difficile e imbarazzante, come di sdoppiamento: gli italiani sono come moderni in una realtà (solo) antica. Cosa lasceremo oltre ai piani regolatori che hanno distrutto un paese, redatti da politici incompetenti, forse le villette con gli archetti e i finti capitelli, o forse l’edilizia speculativa degli immobiliaristi?
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