martedì 11 settembre 2007

Un pensiero per il Parco del Roccolo

Un giorno passeggiando per Nerviano, cercando un’area interessante per un lavoro universitario, l’amico e professore Antonio Esposito mi chiese qual’è il prodotto tipico dell’area nervianese. Prontamente risposi: gli affettati di Auchan, i piatti caldi di Esselunga, gli scatolati a basso costo di Lidl. Dopo gli anni delle giunte creative e della speculazione edilizia selvaggia credo sia giunto il momento, per un’area che fu una delle spine dorsali dell’economia del Ducato di Milano prima e del nuovo stato unitario poi, di fermarsi e riflettere.

Le trasformazioni che a partire dalla fine dell’ottocento hanno interessato i territori tra Milano e Varese sono state rapidissime e radicali, spesso insensate. Da area a vocazione agricola, ad area tessile per eccellenza – la Manchester d’Italia di fine ottocento e inizio novecento –, ad area industriale, tra le altre l’Alfa Romeo e la raffineria di Rho-Pero, poi post industriale, ora i giganteschi centri logistici e i centri commerciali.
Ha ancora senso parlare quindi di prodotto tipico in un’area del genere? Forse no.
Certamente può avere senso parlare di caratterizzazione di un territorio, di dare, o di ridare, un carattere a questa zona. Potrebbe essere un occasione, certo a essere onesti, per chi conosce un poco la vicenda e per chi ha mai provato ad addentrarsi al suo interno, sarebbe meglio dire un occasione “poteva essere un occasione” il parco del Roccolo (http://www.parcodelroccolo.it/) – un parco nato per frenare speculazioni edilizie e politiche su una delle poche aree ancora verdi tra Sempione, Olona, Villoresi –. Mala gestione, mala amministrazione, scarsa volontà da parte dei politici di provare a capire come gestire, e soprattutto cosa farsene del parco, hanno portato a una situazione imbarazzante e ormai, credo, al limite del ridicolo: il parco c’è, ma non c’è. Cosa fare quindi?

Uno degli interessi principali della nobiltà milanese a partire dal quattrocento, durante gli anni della dinastia sforzesca, era costituito dalla vinificazione e soprattutto dal controllo della vendemmia, tanto che il periodo preferito per la villeggiatura nelle campagne era per lo più l’autunno. I terreni delle zone tra il Naviglio Grande e le Groane, a nord di Milano, terreni sostanzialmente asciutti, dai censimenti catastali settecenteschi appaiono coltivati intensamente a vite, con grani e foraggi, alternati a filari di vite.
Fu durante il periodo di Ludovico il Moro che si insediò nel territorio a nord di Milano il tipo della “cascina villa” – che con le sue corti nobili collegate direttamente a quelle agricole, con i suoi portici, i fienili, le cantine, i granai, le stalle, le cascine, le colombaje, rappresenta un tipo architettonico che può definirsi tipicamente milanese – e che si sviluppò la vocazione vinicola delle zone bagnate dall’Olona. La cascina villa era il centro della vendemmia.
Oggi la vite, dopo i problemi creati dalla comparsa di due parassiti, l’oidio e della fillossera, e dopo l’industrializzazione novecentesca, è totalmente scomparsa dalla campagna milanese, ma ancora durante tutto il settecento era diffusissima.
Ora, ripensando alla domanda dell’amico Antonio, su quale prodotto potrebbe essere considerato prodotto tipico, su cosa si potrebbe, in un futuro, puntare per rilanciare e ricaratterizzare una zona che sembra avere perso la propria anima, beh forse una risposta la inizio a intravedere... È così pazzesco pensare a un progetto di reintroduzione della vite e della vinificazione nella nostra zona – in realtà so che, a fatica, il parco del Roccolo ci sta già provando –?

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