martedì 31 marzo 2009

Detti e Contraddetti

Mi permetto di pubblicare questo commento, data la densità del testo e del contenuto, come fosse un vero post.

Prendo in prestito dei versi di Sheakespeare:

POLONIO: Monsignore, posso sapere che state leggendo?
AMLETO: Parole, parole, parole.
POLONIO: Di che è questione, Signore?
AMLETO: Questione? Fra chi?
POLONIO: Volevo dire l'argomento, l'argomento del libro che leggete.
AMLETO: Calunnie, signor mio.

Calunnie signori miei quelle che certa gente pensa di farci credere dette per il "nostro" bene, per il bene della società! In nome di un Senso comune che pochi però hanno...

Mi permetto di dissentire sull'invettiva fatta da un lettore, credo Ale, all'ultimo post di Fabio: come ha già sottolineato Fabio, infatti parlare della piazza "della" Garbatola, è solo un esempio. E se ne potrebbero fare mille altri altrettanto efficaci!
E sono pienamente d'accordo con Fabio quando giustamente lascia cadere le personali e inoperative provocazioni, forse perchè abituato a simili commenti.

Ma io non riesco proprio a starmene zitta.
I problemi del nostro Comune sono tanti e sono stati più e più volte affrontati, commentati, polemizzati, combattuti...ma per risolverli non basta bloccare il traffico, o fare quattro cartelli polemici, o gridare nelle piazze o per le strade: queste cose sanno di vecchio e di provinciale, e per giunta le trovo molto poco efficaci, o sbaglio?!
Odio dover precisare l'ovvio, ma non è guardando al giardinetto, al muretto, alla panchina...che si fanno progetti per il futuro del paese: per cambiare le cose ci vuole un progetto d'insieme, un'idea di città, un'idea di progetto di città. Non si va da nessuna parte con le parole: la critica dev'essere operativa, altrimenti cade nel vuoto!

I problemi vanno affrontati dal di dentro, in questo caso, ad esempio, entrando nella macchina burocratica comunale; non tutti possono e pochi sono in grado di farlo (il perchè è da chiedere ai "vecchi" burocrati comunali e alle loro seggioline)!!
E per concludere mi riallaccio al discorso fatto nel blog. Non saremo noi a fare questa "rivoluzione", ma è nostro dovere gettare le radici: devono essere fondamenta solide, che abbiano un progetto già preciso e definito. Bisogna guardare lontano, oltre la contingenza del presente, per poter proiettare nel futuro i nostri sogni, le nostre speranze, i nostri progetti.

Della crisi generazionale e della rivoluzione















Non mi piace fare polemica inutilmente e capirete che essendo poi parte in causa, in quanto architetto e professionista, nemmeno mi conviene, forse mi converrebbe di più offrire qualche caffé o qualche cena al politico di turno o farmi vedere in giro con politici amici o altre cose tipiche dell’italianica virtù. Ma primo non fa parte della mia formazione, secondo quando è troppo è troppo. È ora, e con forza, di gridare all’attuale classe dirigente di andarsene a casa, è ora di passare all’azione, senza se e senza ma.

Da destra a sinistra, dal nord al sud, stiamo vivendo non un momento di crisi ma un momento di paralisi. Paralisi totale. Crisi economica? Si certo ma prima di tutto crisi di una generazione incapace di guidarci. Dovete andarvene a casa!

Vi faccio due esempi, uno nell’estremo nord, in un comune di cui ancora non posso fare il nome – capirete poi perché – e uno nel mio comune, Nerviano. Nel primo, un borgo turistico molto attivo del Trentino Alto Adige, l’amministrazione comunale il 3 luglio 2008 pubblica un piccolo concorso di idee per la riqualificazione di alcuni spazi centrali, una cosa normale per il resto dell’Europa, che di solito si risolve in poche settimane con un vincitore e con l’incarico professionale e l’inizio dei lavori. Ma siamo in Italia, seppure nel profondo nord, e la scadenza, prevista per il 30 settembre, viene prorogata al 31 dicembre 2008 – e già ci sarebbe da chiedersi quale tecnico, professionista, tranne il sottoscritto e pochi altri, si mette in testa di consegnare un lavoro il 31 dicembre, tra i botti e i preparativi del capodanno –. In ogni caso cinque mesi di tempo per consegnare i progetti. Ebbene oggi è il 31 marzo, sono passati quindi altri tre mesi, otto in totale, e ancora niente, non una classifica, non una segnalazione, non una mail, una lettera, una comunicazione, niente.
A Nerviano invece la vicenda della piazza del paese in cui vivo sa anche di ridicolo. Da almeno quattro anni dovrebbe esser partita la progettazione e conseguentemente i lavori: nel 2004 infatti si inizia a parlare di rifacimento della Piazza don Musazzi e viene inserita – forse anche prima, attendo smentite, ma non è questo il punto – nel programma triennale, in quello 2006-2008 è prevista per il 2006 – vedi mio post “Nerviano e il programma Triennale Lavori Pubblici 2006/2008”, del 3 dicembre 2008 – in quello 2009-2011 è riconfermata. A oggi niente.
Ma non è finita. Sul lavoro dell’assessore Serra, assessore ai LL.PP. di Nerviano, fino qualche settimana fa non avevo nulla da eccepire, era appena stato nominato e stava cercando di portare avanti le tante cose in sospeso o non fatte che l’assessore precedente, Pisoni, non aveva fatto, o non aveva fatto fare. Ma il 19 dicembre 2008 in consiglio comunale il Serra, in merito la sistemazione della Piazza di Garbatola, dice: «Il bando per il concorso è pronto, abbiamo preferito, se mi passate questo termine, aspettare un momento anche in virtù delle problematiche legate alla viabilità della frazione, pensiamo che sia utile che i professionisti, i cittadini che vorranno partecipare a questo bando abbiano più elementi, sia necessario dare più elementi, in modo che gli eventuali progetti presentati tengano conto anche di quelle che possono essere le soluzioni in termini viabilistici della frazione. Comunque in ogni caso il bando è pronto per cusicuramente pubblicato» [1]. Effettivamente non dice quando, dice nelle prossime settimane… – in realtà ricordo perfettamente che disse entro una settimana, cioè entro Natale 2008, perché appunto aveva aspettato un’assemblea pubblica dove si doveva spiegare la nuova viabilità del paese –. Beh sono passate 14 settimane e ancora niente.

Capite perché siamo esasperati, capite perché la nostra generazione non ce la fa più! Certo non saremo una generazione di lottatori, di gente agguerrita, forse preferiamo stare a casa a guardare la partita, o uscire per andare in palestra, o al cinema, o in giro con gli amici, ecc, ma davvero credeteci non ce la facciamo più. E lo stato delle cose non cambierà attraverso di noi, con la nostra generazione, quello certamente no, ma la rabbia che coviamo aumenterà talmente tanto che i nostri figli la faranno sfociare in rivoluzione sociale, credo anche violenta.

Non si può andare avanti così, e certamente capirete perché diventa difficile, spesso scomodo, per un professionista che poi in quel piatto ci deve, o ci dovrebbe, mangiare, fare nomi, citare frasi, documenti ecc, sia nel profondo nord come nel mezzogiorno.
Quando poi, e concludo, ci si prova, con la poca forza che si ha ovviamente, non crediate che sia semplice. Qualcuno di voi, ormai due anni fa, partecipò all’ultima iniziativa pubblica nervianese che sostenni e anzi promossi dopo “Primavera Democratica” del 2003, i “Laboratori Democratici”. Il partito democratico era di la da venire, o all’orizzonte, anche se molti degli attuali dirigenti locali dicevano di smettere di fare politica nel momento in cui il partito sarebbe nato, ma è un altro discorso, e con qualche amico iniziammo, sarebbe meglio dire provammo a iniziare, questa nuova esperienza. Non un partito ma un Laboratorio a sostegno del partito nascente. Un Laboratorio, cioè un metodo diverso di lavorare e di approcciare i problemi, un metodo che si basa sul lavoro e sull’analisi della realtà. Lavorare aprendosi alle associazioni, ai partiti anche di opposizione, certamente non alle folle oceaniche, ma lavorare andando da loro, nelle loro sedi e non chiamandole in una sede di partito. Unica clausola che ponevamo: chiedevamo di essere liberi. Quindi nessuna sede di partito ma l’aula civica comunale, regolarmente pagata, e nel giorno che ci era più comodo: il lunedì sera. Già ma il lunedì c’è la riunione del gruppo di maggioranza e gli assessori non possono intervenire, ci dissero dal partito. Rispondemmo: “e chi se ne frega…”. Non era cattiveria ma era un modo diverso di approcciarsi al lavoro, in libertà. E forse in una prima fase la “vecchia classe dirigente” – per noi trent’enni i cinquant’enni e sessant’enni, seppur sessantottini, rappresentano la vecchia attuale classe dirigente –, per quanto nuova o novella a Nerviano, non doveva partecipare, o era meglio se non partecipava, se ci lasciava ampia libertà di agire.

Ma non lo capirono e con la loro forza, tipica della formazione degli anni settanta, si presentarono alla seconda riunione affossando di fatto il progetto, con battute ironiche e sarcasmo, con tutto quel sistema di cose che a noi trent’enni ha fatto da subito scappare la voglia, per tornare alla palestra, alla corsa, al lavoro sociale nelle associazioni, ecc, anche al partito – in altri paesi però –.
Dopo qualche mese nacque il PD e alle elezioni primarie del nuovo direttivo del nuovo partito alcuni giovani, tra cui il sottoscritto, si ripresentarono nuovamente, ma secondo vuoi quanti nuovi dirigenti furono eletti? Nessuno, o anche tutti…già, le compagne dei “vecchi” compagni.

Ps. Ovviamente parlo della parte che conosco, ma so che anche dall’altra parte della barricata più o meno è così. Magari i trent’enni, le facce nuove, vengono messi in prima fila, ma poi di fatto non contano niente, forse meno che nel PD…


[1] Verbale del consiglio comunale di Nerviano del 19 dicembre 2008, pp. 33-34. Scaricabile all’indirizzo http://www.comune.nerviano.mi.it/default.cfm?channel=verbali

Il Bosco della Moronera

















Ricevo e pubblico volentieri. E aggiungo: ma come si fa, come mi ha fatto notare Antropofilo, a devastare un bosco chesi chiama così! Moronera....


Fra pochi giorni sarà presentato ufficialmente il progetto della società Pedemontana Spa per il tratto della nuova autostrada che attraverserà il Bosco della Moronera, fra Turate e Lomazzo (CO): eventuali obiezioni od osservazioni vanno sollevate entro 60 giorni. L'associazione "Immagina Lomazzo" ha organizzato per domenica 5 aprile una giornata dedicata a questa area forestale, per poterla così visitare pochi mesi prima della costruzione dello svincolo sul bosco. A seguire il programma dettagliato.

Programma:
  • Ore 10.00 - presso il Parco della Trebbiatura, in via Veneto in località Manera, partenza per un'escursione nel bosco della Moronera, in pieno risveglio primaverile.
  • Ore 15:30 - il parco di Villa Ceriani, in via IV novembre, ospiterà un concertino di benvenuto a cura del gruppo "Il compleanno di Mary", band emergente che ha scelto proprio il bosco lomazzese per ambientare alcune sequenze del suo prossimo videoclip.
  • Ore 16:00 - all'ex asilo Garibaldi per la presentazione del libro: "Il futuro negli alberi" di Milena Ortalda, seguita da un dibattito aperto che si preannuncia rovente: "La comunicazione ambientale tra catastrofisti e negazionisti".
  • Ore 17:00 - premiazione del concorso "Storie del bosco", bandito da Immagina Lomazzo in collaborazione con Officina di Segni e con il Patrocinio di Legambiente Lombardia.
  • Ore 17.30 - "Merenda a Km 0" sarà offerta dalle aziende locali della filiera corta.
  • Ore 18:00 - concerto del gruppo "Il compleanno di Mary", con Mino Di Martino dei Giganti, intervallato da letture sceniche dell'attrice Francesca Botti accompagnata dal musicista Alessio Pamovio.
  • Ore 19:30 - proiezione di immagini e video sul bosco della Moronera
Nel pomeriggio saranno raccolte e autenticate le firme per la proposta di legge a salvaguardia dell'ambiente promossa da Legambiente:"Metti un freno al cemento". Sarà possibile seguire le fasi salienti della giornata in diretta video sul sito dell'associazione. In caso di pioggia la passeggiata sarà rimandata, mentre le altre iniziative si terranno presso l'ex asilo Garibaldi. Per ulteriori informazioni: Ezio cel. 3358170671

venerdì 27 marzo 2009

Dall'università

Ricevo e pubblico volentieri questo commento che lo trasformo, data l'importanza del tema e la densità del problema in un post, che come al solito spero sia frutto di una comune riflessione.
Vi invito anche a guardare, meglio ad ascoltare questo (anche se ormai ha fatto il giro della rete e molti di voi lo conosceranno...). Anch'io, nel mio piccolo, arrivai a dire cose simili, o con un tono simile a Nerviano qualche anno fa, certamente non coì bene. E anche Nanni Moretti, Pancho Pardi, Dario Fo, risultato? Niente, da allora o quasi manco dalle sedi dei partiti...
http://www.youtube.com/watch?v=f3tqFf9IfgM
















Gardella: l’architettura, la città
Convegno alla Facoltà di Architettura Milano-Bovisa
Mercoledì 25 marzo 2009

Inizia il convegno: non sono presenti molte persone, ma ci sono quelle che contano.
C’è Daniele Vitale che presiede, c’è il preside Torricelli, c’è il prof. Fortis, ci sono Gardella e Canella, Boidi, Bordogna e Bonaretti…Insomma ci sono proprio tutti: tra capelli grigi e capelli tinti, l’età media cresce in modo inquietante: eccoli i grandi capi-capoccia della Facoltà!
Sembra un ritrovo tra vecchi amici, in cui mi sento irrimediabilmente fuori luogo!
Dopo le prime parole di formalità di Vitale e Torricelli, Fortis incomincia a rievocare i tempi che furono, e “novellando vien del suo buon tempo” di quando Fortis senior lo portò, ancora ragazzo, a vedere le opere di Gardella senior, e di quando suo figlio Fortis jr. fece le fotografie a Gardella per poi appenderle nella sua cameretta…
Che bel quadretto!
Terminati i convenevoli - e già compresi il clima e la scientificità del convegno - inizia la lunga serie di interventi: in primis Jacopo Gardella (Gardella jr.) con un intervento dal titolo: Continuità e discontinuità nell’architettura: pochi cenni su cose già sentite, già lette, già studiate, e già anche superate, sulla continuità e discontinuità della tradizione nella progettazione contemporanea. A seguire una serie di sterili e ipocrite invettive contro la “Nuova Classe Dirigente”.
Una domanda nasce spontanea: ma con chi ce l’ha? Chi fa parte della classe dirigente? Guardo questi Vecchi professori e mi viene una rabbia per l’ipocrisia che aleggia nell’aula!
«Eh, già…la classe dirigente di una volta non c’è più! » – sospira il nostro Gardella jr.
La classe dirigente di una volta non c’è più! E queste persone non si rendono conto che sono loro la nuova classe dirigente, la nuova classe dirigente formata da vecchi!
Legati alla famiglia, al nome, alla cadrega, borghesi milanesi.
A volte basterebbe che facessero un passo indietro, si liberassero di quell’orgoglio da “professore affermato”, e si guardassero da fuori, per vedere quanto sono ridicoli (nulla togliendo alla loro competenza ovviamente!) e accademici conservatori.
E poi si urla “largo ai giovani!”… ah ah ah …
Ma che forse non se ne rendano conto?!

ps. E' necessario chiarire alcuni dati anagrafici dei professori universitari, per comprendere meglio che quando parlo di Gardella Junior, parlo di un uomo nato nel 1935!
Questa è la realtà universitaria milanese ma non solo...
Guido Canella, 1931, Jacopo Gardella (jr.), 1935, Massimo Fortis, 1944, Daniele Vitale, 1945, Pellegrino Bonaretti, 1948, Sergio Boidi, 1948, Enrico Bordogna, 1949

Ah, poi ci sono anche i giovani (ormai cinquantenni): sì, hanno parlato anche loro al convegno, ma dopo,nel pomeriggio, tardo pomeriggio... La cosa che dà da pensare è che sono quasi tutti Storici o dottorati in storia, o ricercatori in storia dell'architettura.
E' curioso come di giovani progettisti ce ne siano davvero pochi: forse perchè la casta dei Compositori è una loggia massonica, chiusa, invalicabile, insondabile. E i giovani architetti, magari anche appassionati al progetto, hanno dovuto fare di necessità virtù e abbandonare la composizione per tentare la propria strada nella storia dell'architettura, per poi, ancora una volta, non essere presi in considerazione, ancora una volta non avere una loro autonomia, e ancora una volta essere derisi di fronte ad un pubblico composto anche da studenti: lo storico "dagli occhi velati", lo storico "che non prende posizione", in poche parole per questi signori questi giovani storici non sono capaci di fare il mestiere! Non si rendono conto forse dell'ipocrisia delle loro parole!
Mi rifaccio allora alle parole del grande Giuseppe Pagano (1896-1945)che scrisse : "Essi [i vecchi] preferiscono parlare di crisi e di decadenza e sputare in faccia ai giovani. I sessantenni hanno molta saliva, ma i giovani hanno più fede e faccia di bronzo".

mercoledì 25 marzo 2009

Un progetto per la Milano Romana















Il rapporto tra monumenti, rovine e vita quotidiana è una questione che «sembra improponibile oggi, anche se l’incuria e il degrado del nostro patrimonio monumentale sono sotto gli occhi di tutti»[1]. Il moltiplicarsi degli scavi e delle scoperte archeologiche, e la crescente importanza della dimensione sotterranea delle città europee, hanno prodotto un sistema diffuso di cicatrici e di ferite, che testimoniano il grave dissidio tra sistemazione architettonica, esigenze di scientificità della conservazione e proseguimento delle campagne di scavo. Dove proseguire gli scavi? È possibile intendere lo scavo come momento evocativo della città antica e fondativo di quella contemporanea?



















La città di Milano e in particolare il caso specifico dell’area dell’antico circo romano rappresentano un esempio concreto e reale per poter costruire un ragionamento sulla città contemporanea e sulla presenza dell’antico nella città moderna.

Come in altre città europee, la romanità di Milano non è un fatto tangibile o evidente, ma celato e sottostante, ha natura virtuale e passa attraverso la persistenza di alcuni caratteri formali, o di alcuni tracciati, monumenti e toponimi. Abitata già nel V sec. a.C., in epoca Golasecchiana, Milano fu prima città celtica, Insubre, poi a partire dal II sec. a.C. fu lentamente romanizzata, fino a diventare colonia nell’89 a.C. e municipio nel 49 a.C.
Milano è una città che ha sempre distrutto il suo passato riedificandosi su di esso, tuttavia l’eredità romana si manifesta ancora in diverse zone della città: le colonne e la basilica di San Lorenzo, i resti dell’antico anfiteatro, la zona del circo tardoantico (late roman). Quest’ultima in particolare è nota per avere conservato alcune delle poche testimonianze in elevato della città romana: una torre e alcuni tratti delle mura dell’imperatore Massimiano[2] e la torre dei carceres[3] del circo, trasformata nel medioevo in campanile della chiesa di San Maurizio.
Realizzato tra il 293 e il 294 d.C.[4], il circo era monumento di dimensioni imponenti e misurava «esternamente m 470 in lunghezza e 85 in larghezza»[5].
Forse in memoria degli spettacoli e dei riti che aveva ospitato il circo rimane nell’alto medioevo luogo di assemblea e di vita sociale – nel 604 d.C. vi fu incoronato il re Longobardo Adoloaldo –, quindi lentamente inizia a trasformarsi con il progressivo insediamento tra le sue mura, prima di una serie di monasteri femminili, poi di ville e palazzi signorili. Ciò che più colpisce infatti è il destino urbano che ha subito il circo, uno dei monumenti più importanti della città antica, e il modo in cui esso si è riconvertito in una delle parti più belle della città. Va ricordato poi che il circo era un elemento liminare della città: era cioè un ampliamento di quella città compatta che stava rinserrata nelle sue mura e rimaneva ben distinta dal territorio che l’avvolgeva tutt’intorno, un territorio fatto di strade e necropoli, edifici utilitari, luoghi religiosi e campagne, e forse anche per questo i monasteri femminili, che forse avevano bisogno di maggiore protezione, si insediano all’interno della città e del circo, mentre i grandi monasteri maschili di S.Ambrogio e S.Francesco si costruiscono sul limite ovest dell’edificio, al di fuori della città antica. E questo carattere liminare persiste ancora oggi: la parte urbana che si costituisce dentro e sopra il circo, e che allontanandosene ne raccoglie l’eredità e la forma, seguita a costruirsi secondo il tracciato del circo e l’asse nord-sud, mentre la realtà sparsa, fatta di un sistema di terreni sgombri e di strutture isolate – almeno fino alla metà del novecento –, profondamente diversa che è quella della zona di Sant’Ambrogio si costruisce secondo la direzione della città e l’asse nordovest-sudest.

Il circo milanese, quasi scomparso nella memoria comune e collettiva, e certamente scomparso e invisibile come manufatto, sopravvive a tratti nella memoria erudita, così alcune strade e alcuni toponimi richiamano il vecchio edificio, e più ancora rimane come fatto fondativo di una parte di città. Progettare nella zona del circo, nella zona più importante del circo, quella dei carceres, trasformata prima in sede del più grande monastero femminile di Milano, il Monastero Maggiore, con una delle chiese più belle di Milano, la chiesa di San Maurizio, quindi quasi completamente distrutta dai bombardamenti alleati del 1943, vuol dire farsi carico della storia di quel luogo. Il circo è contenuto nella città contemporanea come le linee su un palmo di una mano. Capire la romanità di Milano, studiare i punti di conflitto tra la città antica e la città moderna, vuol dire lavorare e progettare cercando di riconsiderare le zone archeologiche della città non come ferite, ma come parte concreta della città attuale.
Un progetto per una zona così densa di testimonianze e di storia deve porre in primo piano la lezione dei monumenti e insieme confrontarsi con le implicazioni civili che costruendosi instaura rispetto alla città contemporanea, per migliorarla, attraverso la ricchezza e il senso evocativo delle opere antiche. Il progetto di ampliamento del Museo Archeologico di Milano, oggi compresso nei locali sopravvissuti alla distruzione dell’antico Monastero Maggiore, ha una doppia valenza, da un lato tentare di ridefinire la forma degli scavi archeologici, capire dove proseguirli, e se possono attraverso la forma evocare una nuova città, dall’altro ricucire e recuperare una memoria antica, la memoria del circo e insieme la memoria dell’antico monastero distrutto tra XIX e XX secolo nella quotidianità dell’uso di un museo.



[1] GIORGIO GRASSI, Teatro Romano di Brescia. Progetto di restituzione e riabilitazione, Documenti di Architettura, Electa, Milano, 2003, p. 7.
[2] Marco Aurelio Valerio Massimiano Erculeo, detto Massimiano (Marcus Aurelius Valerius Maximianus Herculius), nato a Sirmium, nel 250 circa e morto a Massilia, nel luglio del 310 d.C. Fu cesare dal luglio 285 e poi augusto dal 1 aprile 286 al 1 maggio 305 dell'Impero romano. Condivise quest'ultimo titolo con il suo amico, co-imperatore Diocleziano.
[3] I carceres erano gli stalli di partenza dei carri, le bighe, che gareggiavano nel circo. Occupavano uno dei lati minori del circo, l’altro era curvo e occupato dalle gradinate come i lati lunghi, e normalmente erano disposti secondo una linea leggermente curva, studiata in modo tale che ogni stallo di partenza doveva trovarsi alla stessa distanza dall’inizio del rettilineo, segnalato dalla spina centrale del circo, in modo da non avvantaggiare nessun concorrente.
[4] Cfr. ANTONIO FROVA, Il circo di Milano e i circhi di età tetrarchica, in AA.VV., Milano capitale dell’impero romano, 286-402 d.C., catalogo della mostra tenuta al Palazzo Reale di Milano, dal 24 gennaio al 22 aprile 1990, Amilcare Pizzi Editore, Milano, 1990, pp. 423-431.
[5] Cfr. ANTONIO FROVA, Il circo di Milano…, cit. alla nota 4, p. 423.

giovedì 5 marzo 2009

Del ruolo dell'architetto












Mi è stato chiesto di provare a scrivere qualcosa sul ruolo della cultura architettonica e artistica oggi in Italia.
Confesso che non è un compito che mi entusiasma per diverse ragioni. La prima che lo scritto si esaurirebbe in poche righe: oggi la cultura architettonica italiana, se mai ce n’è una, non ha nessun ruolo, né politico, né sociale. La seconda perché si corre il rischio di cadere in un pericoloso quanto devastante pessimismo generazionale, «e poi ci sono quelle volte in cui mi da fastidio che mi do fastidio da solo / ma cosa devo fare per farmi andare bene / testate contro un muro o preferisci uscire / da questa apatia generazionale del cazzo / alimentata a strisce per meglio scappare da una realtà di fatto / che cosa vedi, una giovane mente assiderata / con mille amici su myspace e un'altra cena in solitaria»[1].
No, troppo facile. Troppo facile esaurire così un compito tanto difficile, tanto difficile perché oggi, oggettivamente, tra un grandefratello e un serial TV criminal-militare, o giuridico-poliziesco, tra un Montalbano e l’ennesimo approfondimento su Cogne, Garlasco, Erba, Perugia, a scelta, e la crisi, eterna, del Partito Democratico e dei suoi dirigenti, non si intravede certo alcuna possibilità per la cultura italiana, tanto meno per quella architettonica. Più facile e forse più interessante è parlare del ruolo dell’architetto.

L’architetto non serve. Anche se oggi le cose sono leggermente cambiate e l’architetto fa di tutto, chiaramente tranne progettare architetture, cioè pensare, progettare, disegnare, costruire plastici, ridisegnare e ricostruire plastici, ecc, fino a qualche anno fa l’architetto comunemente non serviva o serviva solo ai ricchi; il geometra invece serviva, progettava le case degli impiegati e degli operai – non di quelli immigrati ma di quelli residenti –. Anche laddove l’architetto si impegnava per garantire all’operaio immigrato una casa e costruiva case sociali a basso costo non era accettato dalla cultura dominante, borghese, che lo indicava, e lo indica ancora, come il principale artefice della distruzione delle periferie delle nostre città – mentre il geometra, o qualche architetto borghese, costruivano, estremamente rispettati, la nuova realtà dei villini singoli della classe media, la nuova classe dominante –.

L’architetto non serve, non serve alle amministrazioni comunali – pensate che a Nerviano non ce n’è nemmeno uno nell’Amministrazione, né nella maggioranza né all’opposizione, nemmeno all’assessorato all’urbanistica, o ai lavori pubblici; così come per altro non c’è neppure un ingegnere, ma questo è davvero un altro problema –, non serve alla gente comune, che purtroppo oggi, stante la gigantesca crisi che ci prende tutti per la gola, ha ben altri problemi che pensare all’architettura o anche più banalmente che non ha soldi per costruirsi una casa nuova.

Quando poi, in rari casi, si costruisce vi è il problema di chi progetta e chi costruisce – a Nerviano, per esempio, costruiscono pochissimi, i soliti quattro o cinque, e uno di questi è addirittura l’ex assessore all’urbanistica, o simile, condannato durante Nervianopoli –. Questi spesso, non sempre e non tutti, sono architetti, o geometri, o imprenditori che per prima cosa, forse giustamente, al guadagno, al valore del terreno o dell'immobile, al prezzo al merto quadrato delle case, insomma a tutto fuorché all’architettura, a tutto fuorché a inserire il loro progetto in un contesto più ampio della stretta cerchia dei comuni limitrofi. Mai un progetto che abbia riferimenti altri che non siano quelli della comune edilizia corrente, mai un riferimento preciso alla storia dell’architettura, mai un riferimento a quanto avviene nei paesi europei, nemmeno un riferimento a quanto avviene a venticinque chilometri da qui, nel vicinissimo Canton Ticino. Niente, e «per l’ennesima volta [bisogna constatare] l’arretratezza e l’asfitticità del panorama offerto dalla produzione architettonica del nostro paese»[2], fatta di villini gialli – tipici del nord milanese –, di casette dai mille tettucci, di muri di cinta con leoni a proteggere gli stipiti degli accessi, di giardinetti con Bambi, Biancaneve ei sette nani.

Ma ancora una volta non è completamente colpa degli architetti.
Di recente mi è capitato di sottoporre ai tecnici comunali un progetto di sopralzo per casa mia: la volumetria, che sembra condannare ogni tecnico di inizio millennio, c’è e il progetto prevede unicamente di costruire un secondo piano su una casa esistente. Per la prima volta, credo, si presenta un architetto con un plastico per chiedere un parere preventivo. Risposta? Con le attuali norme non si può fare. Già perché la casa fu costruita quando le distanze minime dai confini erano diverse da quelle che il legislatore del nuovo millennio ha previsto come sacre e inviolabili, pertanto non si può fare. Ma il legislatore, il politico illuminato che tutto sa e che prevede sempre delle deroghe ha previsto delle deroghe in casi di costruzione nel costruito? No.

Come si fa quindi in una giungla tra il burocratico e il felliniano a parlare di architettura e cultura? Vi fu un momento della storia italiana, il primo dopoguerra, in cui il ruolo della cultura architettonica e artistica era predominante: era il momento della ricostruzione e attorno a figure carismatiche quali Adriano Olivetti si radunavano intellettuali, scrittori, poeti, registi, architetti, per cercare di progettare la nuova Italia, era il momento in cui le amministrazioni erano più libere di fare e soprattutto facevano e progettavano.
Oggi non si progetta più, nessuno ha il coraggio di farlo, e anche laddove qualcuno ci prova, passati due mesi dalla consegna di due concorsi, in due comuni diversi, uno nell’estremo ovest, l’altro nell’estremo nord-est d’Italia, ancora nessuna risposta da parte di quelle amministrazioni che hanno bandito il concorso. Possibile? È mai possibile che nel 2009 ci vogliano due mesi per decretare il vincitore di una piazza o per ammettere una decina di gruppi alla seconda fase di un concorso? No, non è possibile. E allora non ci rimane che reagire.

«Occorre reagire energicamente contro il pessimismo […]. Esso rappresenta il più grave pericolo, nella situazione nuova che si sta formando nel nostro paese e che troverà la sua sanzione e la sua chiarificazione nella prima legislatura fascista»[3].

[1] Brano tratto dalla canzone Il Mostro, del gruppo italiano Linea 77.
[2] LUCA MOLINARI, Italia 04, scritto pubblicato sulla rivista Area, n. 76, settembre-ottobre 2004, p. 4.
[3] ANTONIO GRAMSCI, Contro il pessimismo, in ANTONIO GRAMSCI, Le opere, a cura di Antonio A. Santucci, Editori Riuniti, Roma, 1997, p.149.