domenica 25 maggio 2008

Domà Nunch

Ricevo e volentieri pubblico.

Domà Nunch riprende la sua intensa attività con una serata pubblica su un tema fondamentale della rivoluzione culturale che la nostra associazione propone. Sin da subito invitiamo tutti i nostri simpatizzanti a pubblicizzare l'iniziativa, in particolare esortando Sindaci e Amministratori a partecipare in prima persona per sostenere questa battaglia difficile, ma a nostro parere imprescindibile.

L'onere dell'urbanizzazione. Un territorio distrutto per il profitto di pochi.
Lunedì 26 Maggio 2008,
ore 21 NERVIANO (MI) Centro integrato ex-Meccanica, via Circonvallazione, 1.

In questi ultimi mesi, dopo l'attacco ai Parchi e l'assegnazione dell'Expo 2015 a Milano, stiamo constatando che un cosiddetto "modello di sviluppo lombardo" continua a minacciare il futuro del nostro Popolo e della nostra Terra. Tra le sue varie implicazioni c'è infatti la previsione di accelerare la svendita del territorio per permettere operazioni in project financing.

venerdì 23 maggio 2008

Perché la storia e la cultura sono materie per pochi?









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Perché la storia e la cultura non devono essere materie per pochi e perché sempre lo saranno è un tema difficile da affrontare. Sul perché purtroppo saranno sempre affrontati da pochi è forse presto detto: purtroppo con la cultura non si mangia e con lo studio neppure. Se ci si aggiunge che lo studio soprattutto negli anni giovanili comporta grandi fatiche, rinunce, ecc, beh allora si capisce appieno perché spesso, a ragione, la cultura, le biblioteche, le case della cultura, sono da molti ritenuti temi secondari.
Ma forse l’equazione meno cultura più strade uguale più benessere non è così immediata. È ovvio che una società civile non solo deve chiedere ma deve assolutamente pretendere strade meno trafficate – e lo dice un pendolare milanese –, più agevoli, soprattutto per i pedoni, per gli anziani e per i diversamente abili, più parchi pubblici, non solo semplici giardinetti ma parchi e insieme giardinetti, così come bisogna pretendere servizi scolastici efficienti, case di cura e ospedali moderni, ecc. Non avendo questi spesso giustamente la cultura è stata messa in secondo piano, è stato così durante il fascismo – anche volutamente lasciata in disparte – è stato così soprattutto nel post fascismo durato sin troppo a lungo – pensate a quanti danni quindi fece il fascismo... –. Giustamente quindi un buon amministratore e un buon cittadino fino ad oggi, più o meno in tutte le comunità, hanno dovuto fare una sorta di elenco della spesa, lista che aveva delle priorità e le priorità sono altre, o lo sono sempre state, rispetto alla cultura.

Ieri mi è capitato di fare due chiacchiere con l’assessore alla cultura del mio Comune. È una persona seria, colta e preparata – forse non molto in materie sportive per il vero – e confrontarsi con lui è sempre un piacere – chi mi conosce sa che non dico spesso queste cose, soprattutto agli assessori, o non a tutti gli assessori, anzi... –. E mentre chiacchieravamo riflettevamo sull’importanza della memoria e della cultura nel nostro Paese.
Non essere stati capaci di salvaguardare un intero territorio, non essere in grado oggi di gestirlo, non essere in grado di trasformare un edificio o una piazza o un cimitero è una questione oltre che di progetto, anche di storia, di cultura e di memoria. Non sapere o non ricordarsi che fino a prima dell’unità di Italia i nostri paesi, i Comuni, le Cassine erano sostanzialmente strutturate, sia fiscalmente che amministrativamente, su un semplive sistema federale, non significa solo studiare per un voto o per fare della ricerca fine a se stessa, significa cercare di capire da dove veniamo e dove vogliamo andare.

Custodire la memoria è certamente una cosa di pochi, ma non per questo meno importante di altre questioni apparentemente più concrete quindi. E allora vorrei tanto che si tornasse a una società dove la ricerca non è considerata solo inutile divagazione di pochi, oppio per intellettuali e finti intellettuali, mentre i tanti, amministratori, politici e cittadini si interessano di cose concrete e reali, cioè del bene comune. In alcuni paesi, parlo per esperienza diretta, ad esempio in Spagna, già non è così e io sono fiducioso che presto tornerà a non essere così anche in Italia; c’è un’intera generazione che si sente custode, custode della memoria dei nostri vecchi e del nostro territorio. Solo allora sarà finalmente finita questa difficile epoca.

mercoledì 21 maggio 2008

Un parco a Garbatola







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Riprendo dopo qualche giorno di assenza da un tema che sta a cuore a molti, il tema del parco.

Nei mesi scorsi ho provato a distinguere tra parco urbano e parco extraurbano. Si è detto che le differenze non sono solo differenze di terminologia, ma differenze sostanziali: un parco urbano per essere definito tale deve rispondere a determinati requisiti e non lo si può confondere con un giardino pubblico, con un parco giochi, o con un parco extraurbano. Se però il campo di applicazione è una piccola realtà, un piccolo borgo, come molti in Italia, allora la questione si complica: di colpo parco urbano, giardino pubblico, parco sovraccomunale, aiuola con i giochi per i bambini, tendono a perdere identità e a confondersi. Se poi ci si mettono pure gli interessi di parte, interessi che spessissimo governano le decisioni prese nelle piccole comunità, allora tutto si fa molto più complesso.

Negli ultimi due mesi sono state presentate sui giornali locali, e non solo, anche in Consiglio Comunale, due proposte: la prima, più semplicistica, prevede di destinare una piccola striscia di un giardino, già della scuola materna, a parchetto pubblico; la seconda prevede di destinare a parco pubblico un ampia area verde confinante con la zona industriale di PRG. Perché un’area verde molto vasta, sovracomunale, confinante con il canale Villoresi, un’area già battuta da podisti giornalieri, da ciclisti della domenica e da famiglie in gita lungo l’alzaia del Canale, un’area solcata dal quasi defunto torrente Bozzente, ma anche da un sistema intrigante e intricato di canali e vasche d’acqua, un’area quindi già per sua vocazione parco, non è stata ancora considerata nel dibattito che si sta accendendo in questi mesi attorno alla possibilità di avere un parco a Garbatola di Nerviano? E allora un blog serve anche a questo, e da questo blog, come ho già fatto precedentemente anche su altri temi, lancio questa proposta: perché non considerare l’area tra Garbatola, Villanova e Sant’Ilario un grande parco, un grande parco delle Frazioni?

Certamente ha ragione chi pensa a un’area gioco, con tanto di rampe per gli skate, castelli di legno, panche ecc, un parco infatti va pensato e progettato come si dovrebbero pensare e progettare le città: quindi un’area gioco potrebbe essere sistemata in prossimità del centro abitato, poi, man mano che ci si allontana dalle case, le strutture potrebbero farsi più rade, fino quasi a scomparire in un grande, non grandissimo per il vero, ma ancora gestibile economicamente e progettualmente, parco agricolo comunale. Un parco con punti di sosta, indicazioni, cartelli, paletti per le segnalazioni dei chilometraggi per i podisti; un parco pensato e progettato.
Solo pensando e progettando consapevoli di essere inseriti in un contesto più ampio, nel senso del territorio ma anche nel senso della storia che ci circonda, si potrà tentare di essere all’altezza di quel grande disegno che per secoli ha strutturato e costruito le nostre campagne e le nostre città.

lunedì 12 maggio 2008

Progettare una piazza [part. 3]








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Sottotitolo: questioni di memoria

Si è detto che la Cassina è stata il primo nucleo economico e giurisdizionale «imposto in terra lombarda da una “necessità” intrinseca alla gente: il lavoro. Una cascina si distanzia dall’altra in una ragionevole misura, quando comporta cioè la facoltà del lavoro: quanto può adempiere di lavoro una famiglia di contadini, o un gruppo di più famiglie raccolte nell’unità distesa del fondo»[1]. Si è detto poi che le Cascine erano un insieme strutturato e spesso regolare di corti, corti nobili, spesso al centro e con piccoli Oratori adiacenti, e corti coloniche, ai margini e confinanti con i campi. Le residenze dei coloni «quasi sempre a due piani, terreno e primo, raramente e magari soffittate di un terzo. Nel qual caso il sottotetto è adibito a fienile, a granaio»[2]. Sui rimanenti lati del quadrato, o rettangolo, vi erano le stalle e i fienili. Anche queste ultime erano a due piani: al livello del terreno erano le stalle, severe, fatte di muri con poche aperture all’esterno, e al piano primo i fienili, grandi spazi aperti pilastrati in modo regolare e coperti da un unico tetto a falde retto da grandi capriate in legno. «Nell’area mediana è ricavata l’aia, in battuto, l’abbeveratoio per il bestiame: e qualche volta ci noti il pozzo […]. L’accesso al cortile è dato da un portone e da un andito acciottolato, ove si tratti di un vero cortile cioè di un quadrato tutto chiuso da edifici, per quanto ampio»[3].

Abbiamo detto infine come questi borghi rurali, oggi divenuti paesi della cintura, difficilmente hanno una piazza vera e propria, porticata o con loggiati che vi si affacciano, come quelle centro italiche, proprio perché diversa è la struttura ossea di borghi e Cassine. Ovviamente non è sempre così, non è così a Vigevano, a Pavia, a Lodi, a Como, ma anche non è così nemmeno ad Abbiategrasso, Magenta, Castiglione Olona, ecc, ma sono situazioni differenti rispetto la grande maggioranza delle piccole o grandi Cascine, erano infatti cittadine, o borghi sperimentali, già nei secoli XV e XVI.

E quindi come intervenire oggi? Ha senso ricreare una situazione che non è mai esistita, magari attraverso composizioni che riprendono i dettami architettonici del passato? O per contro ha senso inserire elementi moderni, nuovi, astratti?
Credo non sia semplice progettare una piazza in queste situazioni, innanzitutto credo si debba riallacciare il rapporto tra composizione architettonica e archeologia urbana, tra progettisti e storici, rapporto che invece negli ultimi decenni si è molto alterato – gli storici si sono rifugiati nel loro estremo rigore, gli architetti dal canto loro hanno spesso operato senza l’aiuto degli storici –. Da qui ne deriva la ferma volontà, da parte di buona parte della cultura architettonica contemporanea, di riscoprire il senso del passato nella città moderna, quel passato che ha perso il suo carattere originario e fondativo, ma che è custodito all’interno della città stessa: nel sottosuolo, negli archivi, nei musei. Nell’Architettura della città, Aldo Rossi sottolinea come la città può essere considerata «un fatto materiale, un manufatto, la cui costruzione è avvenuta nel tempo e del tempo mantiene le tracce, sia pure in modo discontinuo. Da questo punto di vista lo studio della città ci offre risultati di grande importanza: l’archeologia, la storia dell’architettura, le stesse storie municipali ci offrono una documentazione molto ampia»[4]. E così una piazza può diventare una sorta di museo, di luogo della memoria della città antica, dove la rovina – intesa in senso lato, quindi anche la vecchia corte – e non va vista come punto di arrivo, ma come punto di partenza del progetto stesso.



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[1] CARLO EMILIO GADDA, Terra Lombarda, in Id., Le meraviglie d’Italia, Edizioni Einaudi, Torino, 1964, pp. 93-95.
[2] Ibidem.
[3] Ibidem.
[4] ALDO ROSSI, L’architettura della città, Marsilio, Padova, 1966, 1970, 1973; edito. a cura di Daniele Vitale, Clup, Milano, 1978, 1987; ultima ed. Città Studi Edizioni, Milano, 1995, p. 173.

[Foto 01] Garbatola di Nerviano. Cartolina degli anni '50, si può notare come l'attuale piazza sia definita ancora come uno spazio semipubblico (era appena stato abbattuto il muro che recintava lo spazio e che lo faceva essere interamente uno spazio privato).
[Foto 02] Garbatola di Nerviano. Carta dell'inizio del XX secolo. Si nota al n.3 l'area dell'attuale piazza ancora giardino privato di una casa da nobile.

sabato 3 maggio 2008

La 106 Brigata Garibaldi a Garbatola






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Sottotitolo: questioni di memoria

«Dopo due giorni il Comando mi ordina di raggiungere Milano. Lascio i miei compagni della Valle Olona: lascio gli uomini, le donne, i ragazzi, il popolo insomma, che ha combattuto la dura lotta clandestina; lascio i comandanti e i commissari della 106a. Chi sono? Così come me la ricordo la moltitudine dei volti e dei nomi: Sandro, comandante di distaccamento che usava l'officina come rifugio, salvando la vita all'ing. Silvio, Mauro, Luciano, Mosca, Renato, Sante Boselli, Scalabrino, Beccarelli, cap. Costa.
Lascio i valorosi partigiani dei distaccamenti di Lainate, di Rho, di Nerviano, di Garbagnate, di Barbaiana, di Garbatola, di Pantanedo; lascio una folla di eroi oscuri [43]»[1].

[43] Zoni Pio e Lino, Belia, Anelli, Casnaghi, Cechetta, Martinelli, Gini, Milo, Gippin, Ceriani, Comi, Zanichelli, Foglia, Carletto, Giuseppe, Remo, Cip, Anzani, Zonca, Zerbi, Giudici, Boniforti, Carugo, Carcano, Pravettoni, Grassi, Giovanni, Ronda, Marco, Puricelli, Walter, Franco, Barba, Roda, Villani, Sada Fausto, Martignoni, Bellasio, Guido, Pecora, Basega Bruno, Zaminato, Rigoli, Meazza, Zanoni: i giovanissimi, fedeli e coraggiosi Parma di 15 anni, Borroni di 16, Taminato di 17, Menegatto di 16 anni fucilato alla vigilia del 25 aprile, e Bellasio.


Con queste parole il Comandante Giovanni Pesce chiude il capitolo tredicesimo del suo libro intitolato Senza Tregua, che con il dodicesimo sono dedicati alla Valle Olona, nelle zone tra Rho e Legnano.

Una delle cose che mi mancano di più di mia nonna, Natalina Airaghi, scomparsa nel 2001, sono le lunghe nottate, passate da piccolo, con mio fratello, nel suo letto a sentire i racconti del temp de guera, o della sua maestra piemontese, o di quando da piccola andava a fare andare i telai nelle varie manifatture tutt’intorno a Garbatola, o di quei tedeschi con la faccia cattiva, o ancora di quei soldati americani che le lanciavano caramelle e sigarette, o del Duce a testa in giù in piazzale Loreto.
Una delle cose che mi mancano di più di mio nonno, Pierino Pravettoni, partigiano della 106 Brigata Garibaldi distaccamento di Garbatola, consigliere comunale della DC, consigliere del Circolo Famigliare, uomo straordinario e buono, sono tutti questi racconti, perché morì prematuramente nel 1979 a 61 anni quando io ne avevo solo 5 e non potè mai farmeli.
Rimangono le foto. Tante e belle.

Fin da bambino tra tutte le foto che mi sono rimaste impresse in modo indelebile ve n’è una, che puntualmente torna in modo quasi ossessivo, in cui tante persone sono ritratte alla fine della guerra, tra bandiere, fucili, pistole, un prete, gente comune, gente appena tornata dai campi, due giovanissimi. La foto è datata 1 maggio 1945 e, firmata da mio nonno, sul retro è intitolata 106ª Brigata Garibaldi.

Quella foto è una vera ossessione. Da quella foto è partita una ricerca sull’antico Oratorio dei Santi Biagio e Francesco di Garbatola, scomparso in quegli anni; sempre da quella foto è partita una ricerca curiosa e insistente per cercare di capire cos’era la guerra, perché quella gente comune era armata, perché mio nonno, accanto al biondo di Nerviano – almeno così diceva mia nonna –, era armato e puntava contro il fotografo. Perché quei giovani, allora ventisett’enni – sette anni in meno di me – avevano deciso di imbracciare il fucile? Certo molti lo fecero a guerra finita o quasi, certo molti lo fecero per convenienza, certo molti lo fecero per proteggere parenti ancora convintamente fascisti, certo che tutti possono essere considerati a buona ragione veri eroi, o, per dirla con il comandante Pesce, una «folla di eroi oscuri».

Poco importa se i vari Carugo, Carcano, Pravettoni, citati da Pesce, siano il Francesco Carugo o il Piero Pravettoni o l’Attilio Pravettoni o altri, quello che importa è custodire, tramandare e anche ricostruire in modo scientifico e realista la storia di quei giorni, le storie di quei giovani ormai quasi dimenticati.

Ora mia nonna non c’è più e i pochi superstiti fanno molta fatica a ricordare, a riconoscere i volti, a ricostruire le storia, ma è il compito della nostra generazione, una generazione più povera economicamente, una generazione che farà fatica a scrollarsi di dosso quella precedente, che continua a occupare tutti i posti dirigenziali, ma generazione di mezzo che ha, tra gli altri, un compito preciso: ricostruire e tramandare la memoria di quei grandi vecchi, spesso di tre o quattro generazioni precedenti la nostra, ricostruire e tramandare la memoria di quei luoghi, spesso distrutti dalle generazioni successive. Non è un compito facile.

W la Resistenza!

[1] GIOVANNI PESCE, Senza tregua. La guerra dei GAP, collana Universale Economica Feltrinelli, edizione consultata la settima, Feltrinelli, Milano, 2006, p. 277.

giovedì 1 maggio 2008

Progettare una piazza [part. 2]





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Vorrei finalmente provare a tornare a scrivere di architettura, e lo farei ripartendo da una delle questioni lasciate aperte nei giorni scorsi: il tema della piazza.

Se un vecchio abitante di Garbatola, il villaggio in cui vivo e in parte lavoro, dovesse dire a qualcun’altro dove abita, egli direbbe «sono della Garbatola». Così come a Grancia – sarebbe meglio dire alla Grancia – egli direbbe «sono della Grancia», o «sono della Pagliera», o «sono della Poglianasca». Non è un errore grammaticale, o un modo di dire dialettale, semplicemente e involontariamente si sottintende, o si tralascia di dire, «sono della Cassina Garbatola», «sono della Cassina Grancia», ecc.

Spesso amministratori, sociologi e pianificatori tendono a paragonare i villaggi a nord di Milano con i borghi toscani, laziali, o umbri, cercando somiglianze e differenze, cercando soprattutto di ritrovare, e non trovandole di riproporre nei primi quelle piazze tipiche dei borghi mediterranei attorno alle quali i borghi stessi si sono nei secoli formati.

Ho sempre creduto che riproporre l’idea della piazza centro-italica nei paesi a nord di Milano poteva essere una possibilità, poi negli anni mi sono accorto che c’è una grande grandissima differenza tra le piazze tosco umbre e quelle dei borghi lombardi, e non è solo una differenza compositiva, o architettonica, ma è una differenza più profonda, una differenza strutturale e culturale.
Strutturale perchè i nostri villaggi non sono costituiti da case unifamiliari, o da casoni plurifamiliari, o da palazzotti signorili accostati gli uni agli altri, ma da un insieme di corti, che aggregate tra loro formavano l’antica Cassina. Corti rurali abitate dai paesani, con le stalle e le residenze contadine, case coloniche a cui spesso erano giustapposte una o due ville, costituite da un sistema più complesso di corti, corti rustiche, corti nobili e giardini privati. Adiacente a queste di solito vi era una piccola chiesina, un oratorio per la comunità, solitamente al centro del villaggio. Sono esempi splendidi del sistema della cascina-villa il Castellazzo di Bollate, o Villa Arconati, la Villa Borromeo-Litta di Lainate, il Castellazzo di Rho, ecc[1]. In questi borghi la piazza non esisteva.

Vi è poi una ragione culturale, sociale ed economica che ha ostacolato la formazione della “piazza italiana” nei borghi rurali del nord milanese. La Cassina era un sistema complesso, fatto di lavoro, di mondo agricolo e fatto di poche famiglie e di tanta umanità[2]. Quasi tutta la vita delle genti che abitavano le Cassine si svolgeva al lavoro nei campi, o nel grande spazio privato, e insieme pubblico, della corte. «La cascina lombarda è il primo nucleo giurisdizionale imposto in terra lombarda da una “necessità” intrinseca alla gente: il lavoro. Una cascina si distanzia dall’altra in una ragionevole misura, quando comporta cioè la facoltà del lavoro: quanto può adempiere di lavoro una famiglia di contadini, o un gruppo di più famiglie raccolte nell’unità distesa del fondo»[3]. Così le corti stesse rispecchiano nella loro architettura quel carattere severo e austero, tipico delle genti di Lombardia: chiuso e rigido all'esterno e riservato e aperto all’interno, nella grande aia.

E così è più facile provare a cercare una somiglianza tra le corti, tra le aie delle grandi Cascine e le piazze centro-italiche, fatte di palazzotti ricchi di logge e porticati che delimitano gli spazi della piazza, piuttosto che tra queste e le piazzette, o sarebbe meglio dire gli spazi di risulta che si sono nel tempo formati e ritagliati tra le varie corti rustiche e nobili che formavano la Cassina. Spazi severi, senza decorazioni, spazi chiusi, spazi spesso casuali.
E così potremmo dire che le vere piazze, come le si intende nel centro Italia, nei villaggi di Lombardia sono gli spazi interni delle corti, spazi regolari, spesso quadrati, costruiti e strutturati con una logica ferrea, con i lunghi ballatoi, le scale negli angoli e i grandi porticati interni.

Solo confrontandosi con questa realtà si potrà tentare di approcciare in modo serio e consapevole il tema del progetto di una piazza nei borghi del nord milanese. Ma credo che continueremo a parlarne nei prossimi giorni.

[1] Cfr. SANTINO LANGE', Ville della Provincia di Milano, Edizioni SISAR, Milano, 1972.
[2] ERMANNO OLMI nel film L’albero degli zoccoli, del 1978, descrive sapientemente la vita quotidiana di diverse famiglie di mezzadri che abitano in una grande Cascina della campagna bergamasca, tra l'autunno del 1897 e la primavera del 1898.
[3] CARLO EMILIO GADDA, Terra Lombarda, in Id., Le meraviglie d’Italia, Edizioni Einaudi, Torino, 1964, pp. 93-95.