lunedì 24 marzo 2008

Sede di partito o Laboratorio democratico?










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Mentre i partiti affilano le armi per la prossima tornata elettorale, uno dei prossimi appuntamenti del Partito Democratico – di Nerviano come credo di altri – è quello, tra le altre cose, per decidere il nome della sede.

Premesso che casa del Popolo, già di suo, non mi sembra tanto male, anzi, credo che forse prima del nome bisognerebbe fare un altro passaggio, ma del resto siamo abituati a questo partito nuovo/vecchio che sovverte tutte le tempistiche naturali – e me lo rende più simpatico per la verità –, un passaggio a mio avviso decisivo: chiedersi che cos’è un partito, e soprattutto che cos’è una sede di un partito nel XXI secolo, seppelliti, spero non solo a parole, i partiti tradizionali che abbiamo conosciuto il secolo scorso.
E allora dico in breve cosa piacerebbe a me.
Non mi piacerebbe, non mi interessa, una sede tradizionale, aperta due sere la settimana per il gruppo consigliare e per la riunione del direttivo, non mi interessa una sede con un tavolo una sedia per il segretario, coordinatore, nel mezzo e le sedie disposte a cerchio per gli altri. Non mi interessa una sede di un partito nuovo uguale alle sedi dei vecchi partiti, ma probabilmente sarà così.
A me piacerebbe invece una sede un poco laboratorio e un poco biblioteca, un po’ punto di ritrovo e un po’ centro amministrativo. Ha senso avere una sede di 20 mq per un grande partito maggioritario che vuole muovere le masse? Non credo. E allora?
E allora sarebbe bello che le riunioni di massa – ma quale massa?, diranno i più... – si facessero nelle sale civiche, nelle sale aperte a tutti, e sarebbe bello, insieme, che la sede diventi progressivamente un punto organizzativo, burocratico, con un telefono, con una linea internet e con dei punti per collegarsi con i pc. Ma sarebbe anche bello che diventi un po’ biblioteca e un po’ museo, perché no? Una piccola biblioteca tematica, dove trovare tanto sulla storia dei partiti del XX secolo, sulla storia del socialismo, del comunismo, del socialismo liberale degli azionisti, dei movimenti cristiani e sociali, insomma una piccola ma ben fornita biblioteca dove trovare le radici del Partito Democratico. Una piccola biblioteca consultabile, in una sede aperta, magari aperta tutti i giorni nel pomeriggio alternando pensionati e giovani universitari. Alternando il gioco delle carte, nella corte, e un bicchiere di vino, bianco o rosso, allo studio. Una sede un po’ ludoteca e un po’ sala studio. Una piccola casa della cultura del socialismo democratico, con documenti reali, libri di Gramsci, di Rosselli, di Dossetti; una piccola casa laboratorio con internet, con fogli e matite colorate; insomma un moderno laboratorio democratico.

Buon lavoro a tutti e buone elezioni.

Foto: "Ragazzo con Flauto", scultura in Bronzo di Augusto Murer, 1983. Misure originale: cm 88x65x75. Opera collocata nella sede di Belluno della Cassa di Risparmio di Verona, Vicenza e Belluno.

sabato 22 marzo 2008

Buona Pasqua - Danza Lenta

Hai mai guardato i bambini in un girotondo?
O ascoltato il rumore della pioggia
quando cade a terra?
O seguito mai lo svolazzare
irregolare di una farfalla?
O osservato il sole allo
svanire della notte?
Faresti meglio a rallentare.
Non danzare così veloce.
Il tempo è breve.
La musica non durerà.
Percorri ogni giorno in volo?
Quando dici "Come stai?"
ascolti la risposta?


Quando la giornata è finita ti stendi sul tuo letto con centinaia di questioni successive che ti passano per la testa? Faresti meglio a rallentare. Non danzare così veloce, il tempo è breve. La musica non durerà. Hai mai detto a tuo figlio, "lo faremo domani?" senza notare nella fretta, il suo dispiacere? Mai perso il contatto, con una buona amicizia che poi finita perché tu non avevi mai avuto tempo di chiamare e dire "Ciao"?

Faresti meglio a rallentare. Non danzare così veloce, il tempo è breve. La musica non durerà.
Quando corri cosi veloce per giungere da qualche parte ti perdi la metà del piacere di andarci. Quando ti preoccupi e corri tutto il giorno, come un regalo mai aperto . . . gettato via.
La vita non è una corsa. Prendila piano. Ascolta la musica.

Buona Pasqua

Chi avrà dato la sua vita per causa mia la troverà.

mercoledì 19 marzo 2008

Lettera dalla Cina sul Tibet

It's very hard to know which part is right by media (both western and chinese).my opinion is, donnot judge only by one part of media.
Here are two articles:

http://www.nytimes.com/2007/10/11/opinion/11zizek.html?_r=3&oref=slogin&oref=slogin&oref=slogin

http://www.michaelparenti.org/Tibet.html

in this article, pay attention here "...the problem with Tibetan Buddhism resides in an obvious fact thatmany Western enthusiasts conveniently forget: the traditionalpolitical structure of Tibet is theocracy, with the Dalai Lama at thecenter. He unites religious and secular power - so when we are talkingabout the reincarnation of the Dalai Lama, we are taking aboutchoosing a head of state. It is strange to hear self-describeddemocracy advocates who denounce Chinese persecution of followers ofthe Dalai Lama - a non-democratically elected leader if there ever wasone".

The only opinion I want to express is that everything must be based onfacts, not media.

Thanks,best regards,

Zhen Chen

Un punto di vista diverso dalla Cina sul Tibet

Non mi sono fatto un'idea precisa di quello che sta succendendo in Tibet (perché pochi mesi prima delle Olimpiadi poi?) e per ora non ho elementi per fare un commento, mi limito a pubblicare questa lettera e questo filmato che ho ricevuto da un collega universtario cinese (ricordo a tutti che gli universitari hanno sempre lottato contro il regime cinese).

Dear professors and colleagues,

we all regret about what happened in tibet these days, but I hope youcan get information not only shown in western mass media, but also theopinions of most Chinese people.

If you have interesting to know aboutthe true history and facts, please see the following page

http://www.youtube.com/watch?v=x9QNKB34cJo

If you don't have interest on it, I am sorry to send you this email.

Zhen Chen

lunedì 17 marzo 2008

Casa della Cultura 3















Qualche mese fa, in occasione della Sagra del mio paese, conobbi un giornalista di un settimanale locale, Settegiorni, si chiama Alessandro Luè. Da subito è diventato un buon amico, nel senso più ampio del termine: infatti non ci frequentiamo, non ci scriviamo, non usciamo a bere insieme – purtroppo ... –, tuttavia penso ci accomuni una stima reciproca. Forse perché entrambi parte di una generazione di mezzo, che difficilmente troverà spazio e che difficilmente cambierà lo stato delle cose, diciamo che da lontano ci teniamo d’occhio, e forse perché entrambi curiosi, ciascuno a nostro modo, e ciascuno con i propri mezzi e con il proprio lavoro, stiamo cercando di dire qualcosa, anche attraverso i nostri due blogs – il suo è http://alessandrolue.blogspot.com/ –.

Dico questo perché venerdì scorso, come tutti i venerdì, è uscito in edicola Settegiorni, e una delle due pagine dedicate a Nerviano era quasi interamente dedicata – scusate il gioco di parole – a un’idea che avevo lanciato da questo blog qualche mese fa. Ci tengo ovviamente a sottolineare che non ho mai chiesto ad Alessandro di pubblicare i miei scritti – tranne i comunicati stampa per la Sagra del mio paese, o qualche comunicato legato a qualche manifestazione politica –. Gli ho chiesto ovviamente di leggere il mio blog, quello si, così come io leggo il suo, ma non ho mai fatto dichiarazioni scritte o comunicati. Per questo sono stato molto contento comprando il settimanale e vedendo l’ampio spazio dedicato ad alcune idee che si trovano in questo blog.

Nello scorso fine settimana, dopo molto tempo, sono tornato in Dolomiti e ieri, passeggiando sotto la neve per Moena, mi è tornata in mente l’idea della Casa della Cultura – guarda caso il tema che Alessandro portava alla ribalta cittadina –. In un paesino lontano, tra le valli dolomitiche, è più facile sentire il bisogno di avere una casa comune, una casa dove sentirsi appartenenti a qualcosa, a una cultura antica troppo spesso dimenticata o usata brutalmente per fini elettorali. Ma sia in un piccolo villaggio come in una metropoli, a Vigo di Fassa, come a Barcellona, esistono degli edifici destinata alla cultura locale: per esempio la Ciasa de la Comunità Ladina de Fasa e la Casa de la Cultura Catalana. Edifici che sono insieme biblioteca e museo, punto di informazioni e casa delle associazioni, centro civico e punto di ritrovo.
In uno scritto di qualche mese fa proponevo di utilizzare l’ex torre littoria o il vecchio Municipio, ma sarebbe bellissimo poter utilizzare una vecchia chiesina, come l’antico Oratorio di San Biagio e San Francesco di Garbatola, o quel che ne rimane – anche se non è di proprietà pubblica quindi rimane solo un sogno e una proposta troppo astratta –, o una vecchia corte. Nella casa della cultura dovrebbero potersi trovare facilmente tutte le informazioni relative alle manifestazioni che si svolgono nel Comune e nei Comuni limitrofi – lo spazio a questo scopo dedicatovi in Biblioteca è davvero misero, troppo piccolo –, le informazioni relative alle associazioni, i numeri di telefono, il luogo dove poter contattare i responsabili di ogni associazione. Uno spazio dove poter fare musica, dove poter navigare in internet, una biblioteca dedicata con testi in lingua milanese, con testi sul territorio, una civica raccolta di fotografie – magari donate dai cittadini –, o di stampe, ecc. L’archivio civico, magari risistemato e riorganizzato, e liberamente consultabile da tutti. Una sala dove poter tenere delle piccole lezioni, da 20-50 posti, dove ascoltare dei piccoli dibattiti. Una casa dove sentirsi a casa propria o comunque dove potere conoscere una cultura tanto diversa, una casa dove imparare a convivere. Una casa dove anche noi, figli di una generazione di mezzo, spesso sradicati dalle antiche tradizioni delle nostre famiglie, potremo poter ritrovare le nostre origini e da li ripartire per riprogettare il nostro futuro e il futuro delle nostre città.

mercoledì 12 marzo 2008

Discurso de Zapatero re electo presidente

Governerò per tutti ma pensando per prima cosa a chi non ha tutto.
Governerò perchè si realizzino le aspirazioni delle donne.
Governerò perchè si compiano le speranze dei giovani.
Governerò perchè gli anziani abbiano l’appoggio e l’assistenza che si meritano dopo anni di duro lavoro.
Governerò con mano ferma ma allo stesso tempo tesa.
http://it.youtube.com/watch?v=NxuqWgDbezQ

Programma di Zapatero







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Perché ha vinto Zapatero? proviamo ad analizzare alcuni dei punti del suo programma e vediamo perché la Spagna è così diversa dall’Italia, purtroppo, e perché Zapatero, al di la del bel sorriso, ha vinto le elezioni.

In primo luogo la scuola:

Potenziamento dell’inglese nella scuola.
Lograremos que, en plazo de anos, el 15% de las clases impartidas durante la ESO sean en inlgés. Per far questo in Spagna si promuoveranno corsi e borse di studio. Parallelamente saranno aumentate le borse di studio per soggiornare all’estero in paesi di lingua inglese. Insomma innanzi tutto la scuola e la formazione. E in Italia?

Miglioramento dell’educazione infantile.
Generalizaremos la oferta educativa en el primer ciclio de la educaciòn infantil, cioè da 0 a 3 anni!!! Una volta conseguita la generalizaciòn y la gratuitad del segundo ciclo de Educaciòn Infantil, promuoveremo un accordo tra Governo e Comunità autonome e Comuni per garantire un’offerta educativa qualificata a tutta la popolazione infantile.

Aumento delle Borse di Studio.
[E due...]. Aumenteremo la quota parte destinata alle borse di studio fino a garantire che il 50% degli alunni della scuola secondaria abbiano la possibilità di ricevere Borse di Studio. Il 50%!!!

Quindi gli aiuti sociali:

Aiuti sociali e sostegno alle famiglie.
[Alla faccia del socialista lontano dalla famiglia...]. Amplieremo il limite di ingresso per avere diritto a ricevere aiuti sociali a 15.000 euro/anno per famiglia. Con questo sistema favoriremo la formazione di 400.000 nuove famiglie.
Purtroppo non sono numeri berlusconiani, ma dati reali. In Spagna la società è più giovane, come è più giovane la classe dirigente.

Aumento del salario minimo.
Aumenterà il salario minimo per lavoratori dipendenti del 60% dal 2008 al 2012.

Infine il problema della casa:

Ristrutturazione delle abitazioni.
Programa nacional de rehabilitaciòn integral de viviendas y edificios ya costruidos con la partecipaciòn de los agentes econòmicos y sociales, per un totale di 500.000 nuove case. Si tratta di un piano concepito per cercare di riqualificare, seriamente e non a parole, i vecchi centri.

Nuovo piano per la casa.
In collaborazione con tutte le Amministrazioni pubbliche elaboreremo un nuovo piano per la casa, promuovendo la realizzazione di 1.500.000 nuovi alloggi di residenza protetta. L’ultimo piano per la casa in Italia risale al 1978 e non è mai stato completato. (a Nerviano l’ultimo PRG non prevedeva alloggi sociali o piani di edilizia economica e popolare). 900.000 in vendita e 600.000 in affitto.

Dati tratti da: http://www.lamiradapositiva.es/
Ma in Italia Zapatero è famoso per i matrimoni gay. È così difficile essere un paese normale?

1000 in due settimane! Grazie

Four thousand and more times "Thank You" to the visitors over the two months of 2008 and one thousand in the last two weeks. Thank You

martedì 11 marzo 2008

In Spagna Vince Zapatero














Questo fine settimana ci sono state le elezioni in Spagna e mentre la classe dirigente italiana dà il meglio di se con finte legnate in pubblico e ammiccamenti sottobanco, accuse da reality show in televisione seguite da lunghi sorrisi, che lasciano intendere larghe intese e grosse abbuffate, in Spagna vince chi fa. Ha vinto di nuovo José Luis Rodríguez Zapatero, classe 1960, nipote di un partigiano spagnolo ucciso dai franchisti. Un uomo che negli anni ’80 aveva 25 anni, un socialista che può essere accusato di tutto tranne che di appartenere a un mondo che ormai non esiste più da anni, il mondo delle lotte di classe, il mondo degli anni ’60 e ’70.

Oggi in Italia tutti si sorprendono che Romano Prodi, come pare, lascerà la politica, nessuno in Spagna si è sorpreso che prima Aznar e ora Mariano Rajoy hanno lasciato, o lasceranno, la politica dopo una sconfitta. Insomma in Spagna chi vince governa e fa, chi perde lascia il posto ad altri. In Italia Occhetto ha perso e ha smesso di fare politica – politica nazionale –, Prodi ha perso e smetterà, Silvio Berlusconi ha perso nel 1996, si è ripresentato nel 2001, ha vinto, ha perso nel 2006, si ripresenta oggi nel 2008, ben quattordici anni dopo la prima volta. Nel nostro piccolo, a Nerviano, è normale che chi ha perso si ripresenti dopo pochi anni, nel nome del “ma se no chi?”, e non per una legislatura, che sarebbe già strano, ma per decine d’anni sempre gli stessi. Ma è così difficile essere un paese normale?

Piuttosto che cercare di capire perché Zapatero ha vinto – ma allora non è vero che chi governa poi perde? Vedi anche Blair – in Italia a sinistra si lotta per rivendicare l’amicizia intellettuale con il leader spagnolo: Mussi dice di essere il solo socialista, il non più giovane Veltroni si offende e rilancia, e su tutti Gavino Angius e Boselli affermano di essere i soli e veri socialisti. Ma esiste un patentino del buon socialista? Ma è possibile che dopo 25 anni di Lega Lombarda-Lega Nord, tra governo e opposizione, in Italia il leghismo non abbia ancora ottenuto uno straccio di federalismo? L'unica cosa che hanno ottenuto è un legge definita da loro stessi una porcata. Ma è possibile in un paese civile?

Non voglio farne un fatto anagrafico, credo di avere dimostrato in questo blog abbastanza onestà intellettuale in questo senso, basterebbe rileggere l’ultimo post Late modern generation ­– scusate per la auto citazione, non lo farò mai più – per capire che penso ci siano dirigenti giovani ma vecchi, e insieme dirigenti vecchi ma molto giovani, ma proviamo ad analizzare i dati: il leader francese Sarkozy è nato il 28 gennaio 1955 (53 anni), il leader spagnolo Zapatero è nato 4 agosto 1960 (48 anni, la prima volta 44), Tony Blair è nato il 6 maggio 1953 (è stato eletto premier nel 1997 a 44 anni), in Italia Umberto Bossi è del 1941 (67 anni), Silvio Berlusconi è del 1936 (72 anni), Fausto Bertinotti del 1940 (68 anni), per dirne qualcuno. Non sarà che un anziano a un certo punto non riesce più a non mediare, non riesce più a prendere decisioni impopolari, dure, spesso difficili? Non sarà che questo atteggiamento troppo pragmatico alla fine non paga e anzi allontana dalla politica intere generazioni?

Basta poi rimanere qualche tempo in Spagna, ma anche in Inghilterra, per accorgersi che in quei paesi la società è viva, diversa, giovane: si organizzano mostre con facilità, si demolisce e si ricostruisce, si balla e si lavora, si trova affitto facilmente e facilmente si cambia casa, non si vede politica in televisione ma arte, scienza e sport. In Italia non si riesce a pubblicare niente, a meno che non si abbiano alle spalle anni e anni di esperienza accademica, non si costruisce nulla, si lavora poco e con gran fatica i più anziani lasciano il posto ai più giovani, che per la verità, proprio perché di un’altra generazione, con altre basi culturali, poco se la sentono di lottare con questi grandi esperti di lotta sociale. Ma quando finirà tutto questo? Quando questi ex ribelli di trenta o quarant’anni fa si accorgeranno di avere alle spalle non una, ma due o tre generazioni che fin’ora hanno vissuto e vivono in un mondo completamente diverso dal loro?

Su José Luis Rodríguez Zapatero:
http://www.lamiradapositiva.es/

giovedì 6 marzo 2008

Late modern generation














Noi generazione del tardo moderno governati da una generazione che non ha capito. Noi generazione di mezzo che non riuscirà ne a governare i cambiamenti decisi da altri, ne a esser protagonista di quei cambiamenti, perché altri lo saranno. Noi generazione che ha vissuto, che sta vivendo negli anni della gioventù una grande rivoluzione, tecnologica e industriale, e come sempre succede nelle grandi trasformazioni generazione che sbaglia spesso e che soffre questo cambiamento – quanti litigi per sms, per telefonate sbagliate, per email lette per errore, ecc, quanti rapporti finiti –. Noi generazione parte di una cultura diversa da quella di soli 30 o 40 anni fa – non parliamo neppure di quanto diversa dagli anni ’50 o ’60 del novecento –. Noi generazione che si conosce in chat e che si ricostruisce a chilometri di distanza, via schermo, o via sms, gli odori i sapori le emozioni dell’altro/a a proprio uso e consumo.
Noi generazione che è cresciuta sino ai vent’anni telefonando dalla cabina del telefono, o non telefonando, girando il mondo con i primi walkman, e non con sofisticatissimi lettori mp3, che ha usato il vic20, il 64, il 128, poi il pc, pentium uno, due, tre. Noi generazione che ha sempre disegnato a mano e che ora usa solo il pc. Generazione dell’ipod, del myspace, dei mille blog. Generazione che si esprime in modi molto molto differenti e che usa strumenti molto molto differenti dalla generazione che ci governa. Generazione che non ha una filosofia comune se non quella della paura del diverso. Generazione di trent’enni ancora in casa perché senza soldi; generazione più povera, economicamente, ma spesso più colta della generazione che ci ha preceduto. Generazione che ha visto crollare il muro di Berlino, che non ha nel suo DNA la distinzione bipolare del mondo, tra cattolici o laici, tra comunisti e democristiani, tra dirigenti e operai, tra ricchi e poveri, ma solo tra modern e late modern.
«Tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta abbiamo vissuto una grande trasformazione. Una rivoluzione tecnologico-culturale paragonabile alla grande rivoluzione industriale. Una trasformazione che ha spazzato via queste divisioni del mondo»[1] e tra queste probabilmente la differenza tra destra e sinistra intesa in modo classico. Ma quanto la generazione che ci governa, soprattutto in Italia, sia essa quella politica – nazionale, regionale, comunale –, sia essa quella dei professori universitari, sia essa quella delle lobby professionali, ha capito questi cambiamenti, quanto questa generazione avverte ed è consapevole di essere stata sorpassata? La classe politica credo per niente, come credo per niente la classe dei professori universitari, classi che hanno conquistato con grande fatica il loro posto, “conquistato dopo dure lotte” – parole che sentiamo dirci continuamente –, lotta che però noi non abbiamo nel nostro DNA, e posto che non lasceranno mai, ma che gli si scioglierà e che gli si distruggerà sotto i piedi senza che nemmeno loro se ne accorgeranno, senza lotte.
Cambieranno le cose? Forse si, certamente non sarà la mia generazione a cambiare le cose, ma quella che sta nascendo. Noi nel frattempo non ascoltiamo musica classica suonata da un hi-fi, ma qualsiasi genere e tipo di musica in mp3, noi non scriviamo su riviste intellettuali e colte ma su blog liberi, magari sperando che qualcuno ci ascolti, o semplicemente che qualcuno si renda conto di quello che gli sta succedendo attorno.

[1] MASSIMO CACCIARI, Nei programmi la differenza, le ideologie non esistono più, intervista, di Carlo Brambilla, da La Repubblica del 6 marzo 2008, p.15.

martedì 4 marzo 2008

Progettare una piazza [part. 1]














Vorrei sgomberare il campo da ogni incomprensione. Troppo spesso, soprattutto in comuni piccoli come il mio[1], scrivendo di storia, di teoria e di architettura ci si sente dire “a te che piace la storia, dimmi se...”, oppure “tu che sei uno storico...”, o peggio un “si si, va bene la storia ma bisogna fare i fatti...”, oppure ancora si scrive sul rapporto tra architettura e storia e si viene scambiati per sedicenti storici locali.
In realtà la storia scritta da un architetto è molto diversa dalla storia di uno storico. Riallacciare il rapporto tra composizione architettonica e storia urbana, e archeologia urbana, non significa limitarsi a studiare la storia di un luogo «ma, al contrario, farsi protagonisti di una “azione sovversiva”. Smontando le apparenti coerenze, isolando i singoli frammenti e riconoscendone l’appartenenza alle diverse sezioni della città stratificata – in analogia al metodo di lavoro dell’archeologo –»[2] arrivare a un progetto coerente e rispettoso. Da qui deriva la volontà di riscoprire il senso del passato nella città contemporanea, quel passato che ha perso il suo carattere originario e fondativo, ma che è custodito all’interno della città, nel sottosuolo, o nelle memoria.

Pur riconoscendo come fondamentale il problema dell’accertamento della veridicità delle fonti, la storia degli architetti diventa una storia differente da quella degli storici[3], per i quali la questione del rigore e dell’accertamento dei fatti sono prioritari; prioritaria nella ricerca di un architetto è la questione dell’interpretazione, perché interpretando si chiariscono prospettive e possibilità del progetto. Così studiare la storia urbana di una città o di un paese deve stare alla base di un ragionamento progettuale complessivo sulla città stessa. La teoria per l’opera, per il progetto, è come la céntina per l’arco: il progetto non può che essere supportato dalla teoria, dice Martì Arìs, così come una teoria che non tende al progetto non serve a nulla. E invece troppo spesso – sto facendo l’esperienza diretta della commissione paesaggio e territorio del Comune di Parabiago – assistiamo a progetti privi di una qualsiasi base teorica: case gialle, archetti, tettucci, barbacani, finestre allargate come se niente fosse, in nome del divino Regolamento Locale di Igiene, parapetti in granito, persiane verdi, stalle che vogliono essere residenze – nel carattere – e residenze che vogliono assomigliare a stalle, o a vernacolari pizzerie, con i soffitti perlinati e i finti mattoni a vista – già perché quelli veri sono troppo rovinati...dal tempo –. Progetti per piazze che non sono mai esistite che non si curano del valore storico, simbolico e di memoria di un luogo, progetti per cimiteri che diventano semplici e indifferenti recinti, o peggio, progetti – piani regolatori e piani di governo del territorio – anche per città intere, privi di un pensiero, ma che si limitano ad applicare delle stupide norme decise chissà da chi, chissà dove.

[1] NERVIANO è un paesotto, più che una cittadina, di circa 18.000 abitanti a nord ovest di Milano, sull’asse del Sempione. Dal passato importante è oggi una realtà difficile, a metà strada tra la cittadina, o il paesotto –culturalmente parlando – di provincia e il suburbio della periferia metropolitana.

[2] ANGELO TORRICELLI, Memoria e immanenza dell’antico nel progetto urbano, in AA.VV., Archeologia urbana e progetto di architettura, seminario di studi tenutosi a Roma, dal 1 al 2 dicembre 2000, a cura di Maria Margarita Segarra Lagunes, Gangemi Editore, Roma, 2002, pp. 217-236, la citazione da p. 218.

[3] Da anni Daniele Vitale lo insegna alla facoltà di architettura di Milano.

In alto un particolare del progetto per la piazza di Taino. Progetto finalista al concorso, in due fasi, per il centro di Taino (Va), con Gaia Cerlati, Emilio Cimma e Veronica Visigalli.

sabato 1 marzo 2008

Progetto per un cimitero














Il cimitero è il luogo dei sentimenti, il luogo che custodisce i nostri sentimenti più intimi e nascosti. Il cimitero è un luogo appartato, circoscritto e protetto, rinchiuso da un muro e dedicato al silenzio, una sorta di cornice che fissa i limiti e isola la vicenda privata del dolore, del lutto, del culto dei morti, da ciò che accade intorno. Anche se troppo spesso nei nostri paesi, soprattutto negli ultimi anni, i cimiteri non sono stati pensati, ma sono stati semplicemente tracciati rapidamente da qualche ufficio tecnico sulla carta, e spesso realizzati ancora più velocemente, un progetto per un cimitero è un progetto urbano in tutti i sensi: progettare un cimitero significa progettare la città dei morti.
Il cimitero contiene edifici diversi, che hanno una loro gerarchia e che instaurano tra loro precise relazioni, come in una città anche nel cimitero vi sono luoghi pubblici e luoghi privati e come in città uno dei problemi fondamentali è quello del suo limite.

Spesso nella storia gli architetti si sono posti il problema del limite urbano, e questo problema si è fatto ancor più difficile quando nel XIX secolo si sono abbattute le mura che circondavano e delimitavano le città. Forse la cosa che manca maggiormente in molti nostri cimiteri è proprio il senso del limite. Solo attraverso la lettura delle lapidi, o attraverso la cura delle tombe, che è maggiore in quelle dove il ricordo dei defunti è ancora vivo nei familiari, si può capire, e non sempre ci si riesce, come si è sviluppato il cimitero, qual'è il nucleo più antico, quali le espansioni.
Per la prima volta su questo blog pubblico un mio progetto, già pubblicato da europaconcorsi, per l’ampliamento del cimitero di Bareggio. La nostra proposta – feci quel progetto con altri amici – non vuole astrarsi dalla complessità di relazioni che intercorrono tra le diverse parti del complesso, ma attraverso un semplice gesto, un semplice muro, ridefinire il senso del limite del cimitero, e insieme provare a confrontarsi con la città. Il nostro progetto quindi non è un ampliamento, ma la costruzione di un confine. Confine che vuole essere insieme spigolo della città dei morti, ed elemento importante della città dei vivi.Come nella casa, anche nel cimitero la parte privata e quella pubblica si distinguono e svolgono due ruoli diversi ma entrambi necessari: da un lato l'intimistico rapporto privato con il silenzio e la memoria dei propri cari, dall'altro il significato evocativo del cimitero pubblico come rappresentazione di un unico indistinto sentimento che lega fra loro i cittadini di fronte alla morte. Così l'ossario diviene muro urbano e delimita due parti distinte: una domestica, interna alle gallerie e ai campi del cimitero antico, tra le lapidi e le cappelle di famiglia, destinata al culto delle singole sepolture; l'altra pubblica, rivolta alla città, che deve contenere e rappresenta il senso e l'importanza del luogo.
Un muro spoglio, fatto di semplici mattoni a vista, a richiamare le cascine di Lombardia e i grandi casamenti della pianura milanese. Un muro semplice e monotono sul quale, nella città moderna, fatta di luci, colori, insegne e stravaganze, ogni tanto farebbe piacere soffermarsi per risposare la mente e la vista. Un muro spoglio e severo nel quale è incastrato, come un frammento, come una citazione e un ricordo, un portale classico, richiamo del carattere immutabile e duraturo dell'architettura.