martedì 4 marzo 2008

Progettare una piazza [part. 1]














Vorrei sgomberare il campo da ogni incomprensione. Troppo spesso, soprattutto in comuni piccoli come il mio[1], scrivendo di storia, di teoria e di architettura ci si sente dire “a te che piace la storia, dimmi se...”, oppure “tu che sei uno storico...”, o peggio un “si si, va bene la storia ma bisogna fare i fatti...”, oppure ancora si scrive sul rapporto tra architettura e storia e si viene scambiati per sedicenti storici locali.
In realtà la storia scritta da un architetto è molto diversa dalla storia di uno storico. Riallacciare il rapporto tra composizione architettonica e storia urbana, e archeologia urbana, non significa limitarsi a studiare la storia di un luogo «ma, al contrario, farsi protagonisti di una “azione sovversiva”. Smontando le apparenti coerenze, isolando i singoli frammenti e riconoscendone l’appartenenza alle diverse sezioni della città stratificata – in analogia al metodo di lavoro dell’archeologo –»[2] arrivare a un progetto coerente e rispettoso. Da qui deriva la volontà di riscoprire il senso del passato nella città contemporanea, quel passato che ha perso il suo carattere originario e fondativo, ma che è custodito all’interno della città, nel sottosuolo, o nelle memoria.

Pur riconoscendo come fondamentale il problema dell’accertamento della veridicità delle fonti, la storia degli architetti diventa una storia differente da quella degli storici[3], per i quali la questione del rigore e dell’accertamento dei fatti sono prioritari; prioritaria nella ricerca di un architetto è la questione dell’interpretazione, perché interpretando si chiariscono prospettive e possibilità del progetto. Così studiare la storia urbana di una città o di un paese deve stare alla base di un ragionamento progettuale complessivo sulla città stessa. La teoria per l’opera, per il progetto, è come la céntina per l’arco: il progetto non può che essere supportato dalla teoria, dice Martì Arìs, così come una teoria che non tende al progetto non serve a nulla. E invece troppo spesso – sto facendo l’esperienza diretta della commissione paesaggio e territorio del Comune di Parabiago – assistiamo a progetti privi di una qualsiasi base teorica: case gialle, archetti, tettucci, barbacani, finestre allargate come se niente fosse, in nome del divino Regolamento Locale di Igiene, parapetti in granito, persiane verdi, stalle che vogliono essere residenze – nel carattere – e residenze che vogliono assomigliare a stalle, o a vernacolari pizzerie, con i soffitti perlinati e i finti mattoni a vista – già perché quelli veri sono troppo rovinati...dal tempo –. Progetti per piazze che non sono mai esistite che non si curano del valore storico, simbolico e di memoria di un luogo, progetti per cimiteri che diventano semplici e indifferenti recinti, o peggio, progetti – piani regolatori e piani di governo del territorio – anche per città intere, privi di un pensiero, ma che si limitano ad applicare delle stupide norme decise chissà da chi, chissà dove.

[1] NERVIANO è un paesotto, più che una cittadina, di circa 18.000 abitanti a nord ovest di Milano, sull’asse del Sempione. Dal passato importante è oggi una realtà difficile, a metà strada tra la cittadina, o il paesotto –culturalmente parlando – di provincia e il suburbio della periferia metropolitana.

[2] ANGELO TORRICELLI, Memoria e immanenza dell’antico nel progetto urbano, in AA.VV., Archeologia urbana e progetto di architettura, seminario di studi tenutosi a Roma, dal 1 al 2 dicembre 2000, a cura di Maria Margarita Segarra Lagunes, Gangemi Editore, Roma, 2002, pp. 217-236, la citazione da p. 218.

[3] Da anni Daniele Vitale lo insegna alla facoltà di architettura di Milano.

In alto un particolare del progetto per la piazza di Taino. Progetto finalista al concorso, in due fasi, per il centro di Taino (Va), con Gaia Cerlati, Emilio Cimma e Veronica Visigalli.

Nessun commento: