martedì 4 agosto 2009
Globale e Locale
È una malattia l’attaccamento alla propria terra?
In un’intervista pubblicata sul libro No Global, Franco Gesualdi, credo a ragione, sosteneva che la scoperta recente, dopo il crollo del sistema dei blocchi contrapposti, di potere produrre a basso prezzo in altre zone del mondo, prima l’est, poi il sud del mondo, in realtà dove «non ci sono vincoli legislativi a tutela dei lavoratori, come avviene nei Paesi occidentali, e senza realtà sindacali forti»[1] ha portato negli ultimi anni a un impressionante accelerazione del fenomeno della globalizzazione. Se a questo ci si aggiunge l’odierna incredibile facilità con cui ci spostiamo, impensabile fino a qualche anno fa, o l’impressionante progresso delle metodologie di comunicazione, si comprende benissimo come sia cambiato negli ultimi vent’anni il nostro pianeta. Un cambiamento radicale. Un cambiamento che però spesso sconcerta, destabilizza e sradica. Un cambiamento che ha avuto, e che sta avendo, le sue gravi conseguenze non solo economiche ma anche sociali. Una nuova realtà che spesso ci lascia come spaesati abitanti di comunità che non hanno quasi più un’anima.
Si dorme in paesi che quasi non si conoscono. Si esce di casa presto, si lavora in grandi metropoli, in cui ci si ferma sino all’ora dell’aperitivo, per poi far ritorno alle nostre case, sempre più individuali, cioè sempre meno multifamiliari e collettive, noi sempre più individualisti.
Io, e come me molti altri giovani, non ci sto e anzi credo che il compito di questa nostra strana generazione – quella late modern generation di cui ho scritto qualche tempo fa – non sarà quello di ricostruire la nazione, o quel che ne resta, dal punto di vista politico ed economico, quello spetterà ad un’altra generazione, la prossima, ma quello di ricostruire una cultura nuova, una cultura che parta non dalla globalizzazione ma dalla comunità locale. Ovviamente non lo dico con ottuso spirito di chiusura e proprio contro questo spirito, anticipando una possibile tragedia – lo spirito leghista è già abbastanza tragico, ma vedo che purtroppo ci sono gravi margini di peggioramento –, credo che dovremmo ripartire dalla comunità locale, capirla e sentirci radicati in essa, per poi confrontarci con i vicini, senza paure, senza veli, senza pregiudizi, per integrarci e per progettare un mondo nuovo.
Se quella precedente è stata la generazione che ha cancellato, trasformandole in favole per turisti – laddove si è deciso che alcune comunità meritavano di essere classificate come turistiche –, le tradizioni, le lingue locali, gli usi e i costumi, in favore di un globalismo spesso vuoto e senz’anima, un gigante dai piedi d’argilla, la nostra deve essere la generazione della memoria.
Occuparsi di una vecchia chiesina scomparsa, o cercare di rivitalizzare un paese dormitorio, o ancora provare a giocare con le proprie tradizioni e la propria cultura rilanciandola anche attraverso feste, cene e concerti, credo sia un atto dovuto.
Ci sono serate, come quella di oggi, in cui il temporale verso il tramonto, correndo stanco dal Piemonte alla Bergamasca, ha appena lasciato l’alto milanese. L’odore dell’acqua è ancora forte, i campi sono verdi e una leggera brezza soffia da nord ovest. In queste sere succede che il sole torna a far capolino dopo qualche ora e lo fa scendendo veloce dietro il Monte Rosa e verso la Francia. Gh’è ‘l su che’l guarda indrè – c’è il sole che guarda indietro, che ti saluta – diceva mia nonna. Il temporale è appena passato, si intravede il sereno, ma le nuvole ancora incombono grigie e pesanti, come solo in Scozia o in pianura Padana, sulle nostre teste. È un momento straordinario, fatto di sogno e di realtà. È un momento di speranza. È una di quelle sere in cui capisco che dopo anni di distruzione di un territorio è giunta l’ora di prendersene cura. Sono sere in cui si capisce che dopo anni in cui si sono accantonati lingua, cultura, tradizioni, è tempo di riprenderle, non in senso nostalgico, di un passato migliore ormai perso, ma in senso, realista, progressista e innovatore. Sono sere in cui si capisce che l’attaccamento a queste terre è una malattia.
[1] AA.VV., No Global. Gli inganni della globalizzazione sulla povertà, sull’ambiente e sul debito, a cura di D.Demichelis, A. Ferrai, M. Masto, L. Scalettari, Zelig Editore, Milano, 2001, p. 65.
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
5 commenti:
...Eri ispirato stanotte...sei tornato a scrivere uno di quei blog "impegnati e sensibili" che sono davvero felice di leggere!
Era un po' che non "ci facevi pensare" con delle parole come queste.
Le teorie "glocal" sono sempre molto interessanti e mi sento di condividerle, soprattutto nel vuoto pneumatico in cui sembra stiamo vivendo da qualche tempo.
Non ho ben chiaro quale compito spetti a chi, come me, sente di far parte di una "post-modern generation", ma sono sicuro che tocchi a tutti darsi da fare per recuperare quel sano spirito collettivo e locale in un mondo dove tutto sembra andare nella direzione opposta.
Un saluto sincero,
Pio
Cxxxo, late-modern-tovarisc!
M'è capitato di dirti, perchè sei tornato da...? perchè non parti per...?, ma non pensavo te la prendessi tanto!!!
Vien spesso da scappare dall'Italia, no?
In questo bel post c'è "appena" una velatura di cristianissimo-senso-del-dovere e una spruzzata di romanticismo da cartolina - fra i Manzoni preferisci quello vero, ...no, non Piero, Alessandro - ma leggo anche una "risposta" circostanziata e una lucida critica al mio "stile di vita"!
Vabbè, sai quant'è dura e comunque sono per il pluralismo.
Chiudo con una citazione che ti piacerà, scritta come avresti potuto scriverla - con gli stessi riferimenti! - dal nuovo libro di Corrado Stajano, "La città degli untori":
"Milano era una volta una città dura, ma anche affettuosa, ironica, partecipe. L’imperatrice Maria Teresa aveva lasciato il segno di una buona amministrazione che fu recepita nei secoli [...].
Milano, ora, è una città incattivita, priva di umani abbandoni, che ha cancellato anche il suo linguaggio e ha nascosto chissà dove il suo antico spirito solidale".
Antro Pofilo
Caro Antropofilo compagno come ben sai i longobardi sono gente di terra, a differenza di vuoi, prima romani e longobardi, poi bizantini e papali, gente che è di mare ma anche di terra, non gente fatta solo per viaggiare, come i veneziani o i genovesi, ma nemmeno fatta per stare come i bergamaschi o milanesi, che credo mai sono emigrati; gente che ha sempre ricostruito le proprie città su se stesse (citazione), gente che costruito, contemplato, distrutto e ridistrutto le proprie terre. Il lombardo è uomo dalle radici ben piantate, per quello non emigra; certamente viaggia, come ci hanno insegnato francesi e tedeschi, e cerca di imparare, ma le sue radici, ripeto, sono profonde, come quelle delle vecchie querce...(a proposito, mi è venuta in mente una cosa che proverò a scrivere nei prossimi giorni). Hasta pronto
Posta un commento