venerdì 29 febbraio 2008

Peter Eisenman a Milano













Nato nel 1923 Peter Eisenman è senza dubbio uno degli architetti più importanti dell’ultimo quarto del XX secolo e dell'inizio di questo XXI secolo. Continuo catalizzatore della cultura architettonica americana e mondiale, agitatore culturale, promotore di studi architettonici innovativi e grande studioso fu uno dei primi a riscoprire Giuseppe Terragni.

Eisenman è indubbiamente uno dei tanti studiosi americani costantemente attratto dalla cultura europea e italiana, soprattutto della cultura architettonica italiana tra gli anni ’30 e gli anni ’60. Dottore di Ricerca (PhD) alla Harvard University, a Cambridge nel Massachusetts, dove incontra Colin Rowe, Leslie Martin, Colin St. Hohn Wilson, sin dall’inizio il lavoro di Eisenman è volto a recuperare gli ideali del movimento moderno.
Professore a Princeton e Harvard, nel 1967 fonda l’IAUS Institute for Architectural and Urban Studies in New York, laboratorio straordinarimante attivo negli studi della città, lo IAUS organizza conferenze, esposizioni, corsi, presentazioni, sviluppa molteplici attività e si costruisce come uno dei centri culturali e professionali più importanti al mondo, dove la pratica professionale è subordinata allo studio e allo sviluppo di una teoria architettonica.
Lo IAUS pubblica la rivista Oppositions che presto diventerà manifesto del lavoro del laboratorio. Una rivista aperta, eclettica, per nulla dogmatica, in Oppositions si trovano gli embrioni di tutte le istanze dell’architettura contemporanea e moderna, dalla decomposizione, alla decostruzione, allo studio della metropoli.

L’idea dell’architettura di Eisenman, il suo programma, si manifestò tra la fine degli anni ’60 e l’inizio degli anni ’80 del XX secolo nelle undici case che progettò. Anni in cui si dedicò essenzialmente allo studio, in una vita impegnata e dedicata completamente integrata allo studio dell’architettura.
Teorico del gruppo The New York Five (con John Hejduk, Michael Graves, Charles Gwathmey e Richard Meier), con lo studio Eisenman Architects, dal 1980 ad oggi, realizza numerosi edifici in tutto il mondo. Fondamentali nell’opera di Peter Eisenman sono la House X, prima occasione di lavoro con un cliente colto e ambizioso, a Bloomfield Hills, nel Michigan, del 1975, l’edificio dell’ IBA a Berlino, del 1981-85, il Wexner Center of the Arts, presso l’Ohio State University, a Columbus Ohio, del 1983-89, i progetti per Cannareggio, Venezia, del 1978, e il Romeo+Juliet per Verona, del 1985, il memoriale dell’Olocausto a Berlino, del 1998. Nel 2004 realizza il Giardino dei passi perduti, presso il Castelvecchio di Verona (http://www.comune.verona.it/Castelvecchio/cvsito/eisenman/index.htm) in occasione della Biennale di Architettura.

Il prossimo mercoledì 5 marzo alle ore 16,00 Peter Eisenman terrà una lezione presso la Facoltà di architettura civile di Milano, campus Bovisa.
Presentazione del preside Antonio Monestiroli Introduzione a Peter Eisenman di Francesco Dal Co, quindi la lezione Journey Through The Past di Peter Eisenman.

giovedì 28 febbraio 2008

Più di 3000 volte grazie

Three thousand and more times "Thank You" to the visitors over the two months of 2008. I hope this can become a place to discuss and for thinking over, to stop by and start conceiving, together. Thank You

Premio volumetrico per gli ecoedifici

Dopo avere anticipato al primo gennaio 2008 i limiti più restrittivi per le prestazioni energetiche degli edifici previsti a livello nazionale per il 2010 (D.Lgs 192/2005) dando uno scossa all'intero settore delle costruzioni, la Regione Lombardia ha introdotto una sorta di bonus volumetrico per le iniziative più virtuose in grado di migliorare di almeno il 10% i valori fissati.

Evidente l'interesse dei costruttori a riguardo.Gli interventi, siano esse nuove costruzioni o ristrutturazioni, capaci di abbassare i consumi energetici potranno nella determinazione della superficie lorda di pavimentazione (Slp) non calcolare i muri perimetrali portanti e di tamponamento e i solai che costituiscono l'involucro esterno. La nuova disposizione premiante è da agganciare alle regole sulla certificazione energetica degli edifici approvate definitivamente dalla Giunta nel giugno scorso (Dgr 5018/2007 e sue successi ve modifiche) ed estende lo scomputo nel calcolo della Slp all'intero involucro degli edifici per i quali si certifica un valore di fabbisogno di energia primaria o di trasmittanza appunto inferiore del 10% rispetto ai valori limite.La legge regionale 26 del 1995 introduceva già questo principio ma lo applicava esclusivamente a quella parte dei muri eccedente i 30 cm e per un massimo di ulteriori 25 cm di spessore.

Chissà che finalmente anche in Italia si ritorni a fare dell'architettura, e si abbandoni finalmente quella becera edilizia, da volgare immobiliarista, fatta di villette gialle di mille tettucci di archetti di arconi e di barbacani...

Cfr. Articolo 12 legge 33/2007 (Collegato alla Finanziaria), approvato dal Consiglio regionale lombardo il 28 dicembre scorso.

lunedì 25 febbraio 2008

Costruire nel costruito. Continuità e trasformazione









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Spesso nelle città gli architetti si trovano a dover progettare in situazioni complesse, dense di vincoli, «e tuttavia non è la frequenza di questa situazione ciò che ci ha spinto ad assumerla come terreno di lavoro: è invece la sua natura, il suo carattere didattico, il suo aspetto teorico. Vogliamo lavorare sopra e accanto a dei manufatti, perché pensiamo di poter apprendere in modo diretto dalla loro realtà e dalla loro storia, traendone in modo concreto gli elementi del mestiere»[1]. Perché gli edifici antichi portano con se, dentro il loro corpo e la loro forma, un sapere e un’esperienza antichi con cui l’architetto deve confrontarsi e da cui il progetto può ripartire.
Nella storia dell’architettura, è fisiologico che parti di città o singoli edifici si trasformino in modo anche profondo; ogni caso poggia su una trama di esempi precedenti, che costituiscono una base di esperienza e insieme una struttura resistente. Le modifiche portate a un edificio sono un caso particolare di un fenomeno più generale di trasformazione architettonica e ogni architettura è il risultato di una serie di trasformazioni operate su altre architetture che le servono da fondamento. «Il caso degli edifici di spettacolo di età classica [la mia tesi riguarda la trasformazione del grande circo tetrarchico di Milano] – che trovarono una loro specifica rifunzionalizzazione nelle celebrazioni coram populo dell’autorità dell’imperatore cristiano – è significativo proprio per il fatto che il loro riuso ne ha consentito la sopravvivenza fino a noi, mantenendone intatto non l’aspetto originario, ma il significato nella città»[2]: è il caso emblematico della Cattedrale di Siracusa, che, mantenendo la stessa struttura formale si è trasformata da tempio greco in basilica cristiana, attraverso poche variazioni[3], o del complesso monumentale di Tarragona, o ancora del circo di Milano, utilizzato fino al VI secolo d.C. e quindi lentamente trasformatosi in sede di numerosi monasteri femminili, prima, e di ville signorili, poi.
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[1] DANIELE VITALE, ANGELO TORRICELLI, Progettare un edificio accanto ad un altro, testi e bibliografia 1, Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, Milano, 1994, p. 5.
[2] ANGELO TORRICELLI, “Non per altro si restaura che per apprendervi”: l’antico nella città e nelle tradizioni del moderno, in AA.VV., Attuale proprietà dell’antico, a cura di E. Bordogna e M. Canella, Clup, Milano, 1990, p. 11.
[3] «Mi sembra che quello di Siracusa sia un caso eccezionalmente didattico. Il tempio precedente non è considerato un semplice oggetto, ma una composizione spaziale su cui fondare e per poter realizzare una grande riforma». Intervista al prof. Antonio Armesto, realizzata il 27.10.2005 presso la Escóla Tecnica Superior de Arquitectura Barcelona, dell’Università Politecnica di Catalogna.

FOTO 1. M.G. LO CASTRO, P. LOMBARDI e F. PANFILI, Museo archeologico nel sito del Monastero Maggiore di Milano, relatore prof. Giorgio Grassi, Tesi di laurea presso la Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, A.A. 1995/96, sessione di Ottobre.

FOTO 2. Le Mura Tetrarchiche di Barcino (Barcellona). Placa Nova, Avenida de la Catedral, Barcelona (Spagna).

venerdì 22 febbraio 2008

Stato e Chiesa - Ambrogio Vescovo

Con Ambrogio vescovo iniziò a manifestarsi quel processo di progressiva riduzione del potere dell’imperatore in favore del potere temporale della chiesa. Per chiarire ulteriormente questo delicato passaggio, punto chiave non solo nella storia urbana di Milano, ma di tutte le città europee, vorrei soffermarmi in particolare su due importanti episodi legati all’episcopato milanese di Ambrogio.

In occasione delle celebrazioni annuali di Tessalonica, per vendicarsi nei confronti di una rivolta cittadina, il governatore Boterico decise di non far partecipare ai giochi gli atleti della città. Nacque una discussione, che presto si trasformò in tumulto, quindi ci furono degli scontri e Boterico fu ucciso. Teodosio per vendicarsi ordinò una rappresaglia militare in città. Le milizie imperiali fecero entrare nel grande circo quasi tutta la popolazione di Tessalonica, sbarrarono le porte e uccisero tutti[1].
Ambrogio scomunicò l’imperatore e scrisse che in presenza di Teodosio non avrebbe mai più celebrato l’Eucaristia. Le cronache del tempo affermano che alla fine di dicembre del 393 d.C., Teodosio si recò a Milano, si spogliò della porpora imperiale, entrò nella Cattedrale, si avvicinò all'altare dove c’era Ambrogio, si prostrò ai suoi piedi, gli consegnò le insegne del potere e fu perdonato. Da allora l’occidente non fu più amministrato dal solo potere imperiale.
Non sappiamo se i fatti andarono realmente così, in ogni caso questo è un primo episodio che attesta come il potere imperiale iniziava a essere subordinato a quello ecclesiastico, o comunque legato ad esso indissolubilmente.

La centralità della chiesa milanese, nonché il progressivo cambiamento dei rapporti di forza tra l’amministrazione imperiale e la Chiesa d’occidente, sarebbero confermati da un secondo episodio: il trasferimento a Milano di una reliquia fondamentale per il culto cristiano, uno dei chiodi della croce di Cristo.
Secondo un’antica tradizione Elena, madre di Costantino, dopo aver ritrovato sul Calvario la croce di Cristo ne avrebbe recuperato i chiodi e li avrebbe trasformati in morso per le briglie uno e in elmo l’altro, quindi li donò al figlio.
L’excursus sull’inventio crucis, nel De obitu Theodosii, l’orazione funebre tenuta da Ambrogio nel 395 d.C. alla morte dell’imperatore Teodosio, rappresenta una sintesi della teologia politica del IV secolo. Secondo Ambrogio i chiodi della croce sarebbero stati trasformati in morso per le briglie e corona: il primo fu donato all’imperatore d’oriente, il secondo a quello d’occidente.
Corona e morso erano antichi simboli di potere e, «accostati ai segni della passione di Cristo, divengono per Ambrogio il segno della legittimazione sacrale dell’impero»[2].

Con la trasformazione dell’elmo in corona ferrea, riportata nella versione di Ambrogio, la tradizione del ritrovamento della croce di Cristo non apparteneva più unicamente alla cristianità d’Oriente e a Costantino, ma a entrambe le parti in cui era diviso l’Impero. Milano era consacrata capitale cristiana dell’occidente.

[1] Le cronache tardo antiche attestano di una vera carneficina, di circa 7.000 morti.
[2] MARTA SORDI, Milano nel progetto imperiale dei Valentiniani e di Teodosio, in AA.VV., La città e la sua memoria. Milano e la tradizione di Sant’Ambrogio, catalogo della mostra tenutasi presso il Museo Diocesano, Chiostri di Sant’Eustorgio, Milano 3 aprile – 8 giugno 1997, Electa, Milano, 1997, pp. 20-21.


Testo tratto da: FABIO PRAVETTONI, Archeologia e forma urbana. La zona del Monastero Maggiore a Milano, relatore prof. Daniele Vitale, Tesi di dottorato in Composizione architettonica, XVIII ciclo, Politecnico di Milano, 2006.

giovedì 21 febbraio 2008

Casa della Cultura 2











Bisogna stare attenti a non confondere i piani, o i problemi. Ovviamente le cose che mancano nei comuni di provincia, ma non solo in quelli, anche nelle città metropolitane, sono molte, come dicevo nel precedente post, e certamente quella di cui alcuni miei concittadini si fanno portavoce sono tra le più importanti - legalità, partecipazione, senso civico -. Tuttavia, bisogna, ripeto, stare attenti a non guardare tutto con lo stesso paio di occhiali, attraverso la stessa lente. Insomma non tutto va ricondotto per forza a un'unica battaglia. Ci sono problemi differenti in ambiti differenti, tutti egualmente dignitosi e tutti egualmente importanti e solo prendendoli tutti assieme una società può cresce veramente.

Il Municipio è il municipio, la biblioteca è la biblioteca, la palestra la palestra, la Casa della Cultura è un'altra cosa. E tanto è stata è importante per un popolo, per la sua dignità, per pensare che un futuro era possibile, che, mi ripeto, nel 1920 i primi fascisti incendiarono la Casa della Cultura slovena a Trieste e da li in poi non fai mai più pace. Durante il fascismo gli sloveni foruno costretti ad abbandonare Trieste e l'Istria, o a cambiare nome, o cultura - prime foibe fasciste -. Morto Mussolini, dopo la guerra si vendicarono con le tristemente noti foibe titine e il dramma degli italiani istriani. Morto Tito fu la guerra e la devastazione. Tutto iniziò con la distruzione della Casa della Cultura.

mercoledì 20 febbraio 2008

Una Casa della Cultura








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Boris Pahor in Necropoli ricorda che con l’incendio, da parte dei primi fascisti italiani, del Narodni Dom sloveno a Trieste del 1920, iniziò la devastazione etnica che per tutto il XX secolo ha messo in ginocchio l’intera penisola balcanica. Tanto era importante quella casa che da quell'incendio la storia cambiò.

A Barcellona esistono centri di cultura catalana, ma anche in Francia, in Germania, in Svizzera, per dire paesi vicinissimi a noi, esistono luoghi dove studiare, parlare, ritrovarsi, vedere mostre, luoghi altri rispetto le biblioteche e le mediateche, luoghi spesso legati al filo conduttore della cultura locale. Persino nella piccola Vigo di Fassa esiste la Ciasa della Comunità Ladina.

Certamente gli anni del leghismo hanno avuto un merito in Lombardia, hanno fatto capire a tutti che è necessario, direi fondamentale, riappropriarci delle nostre radici culturali. Riappropriarsi delle proprie radici culturali secondo me non significa escludere gli altri, ghettizzarsi in uno stato regione, o iniettare tra la gente la paura del diverso, sia esso meridionale, albanese, o peggio, comunista. Riappropriarsi delle proprie radici significa innanzitutto studiare il proprio passato, la storia socio economica, militare, architettonica, studiare la pittura, la scultura, studiare soprattutto le contaminazioni che hanno portato alla formazione di una cultura nuova e spesso diversa da quella iniziale. Riappropriarsi delle proprie radici significa anche studiare la propria lingua.
Credo sia giunto anche in Italia il momento di affrontare alcuni temi da troppi anni monopolizzati unicamente da una cultura pericolosa, penso ai richiami di Pontida o al dio Po, una cultura a volte razzista, dura, certamente troppo folcloristica e inconcludente – la prima volta che la Lega Nord Lega Lombarda andò al governo fu nel 1994. Dopo 14 anni, di nuovo, la stessa alleanza elettorale. Nel frattempo nessun vero cambiamento in senso federal separatista, solo tanto folclore –.
Recentemente alcuni ragazzi del mio piccolo paese hanno organizzato una mostra sulla riscoperta di alcuni lavori antichi, mostra che ovviamente ha ricevuto il plauso di tutti i politici, di destra e di sinistra. Unendomi a quel plauso dico che bisogna andare oltre – so che l’intenzione di quei ragazzi, che conosco è già di andare oltre... –, oltre il folcloristico, oltre il vernacolare ricordo dei "bei" tempi passati e oltre la memoria di un passato lontano; ora è tempo di ripartire, è tempo di utilizzare quel passato per progettare il futuro di una città, di un paese, di una comunità.

Perché non pensare quindi anche a Nerviano a costruire una vera Casa della Cultura? Una casa lontana dal palazzo, lontana dalla politica, aperta a tutti, progressisti e conservatori, operai e studiosi, un po’ biblioteca e un po’ museo, un po’ centro sociale e un po’ circolo per anziani. Magari nella vecchia torre, o nel vecchio Municipio, o in un luogo ristrutturato appositamente. Un luogo dove trovare internet gratuitamente, dove trovare le informazioni che stanno troppo strette in biblioteca, un luogo da cui ripartire per cercare le proprie radici e insieme per cercare di trovare tutti insieme una via comune verso cui incamminarci, e finalmente smettere di stare fermi.

sabato 16 febbraio 2008

Attualità del Socialismo Liberale. Un pensiero per il Partito Democratico



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Socialismo Liberale, di Carlo Rosselli, fu stampato per la prima volta a Parigi nel 1930. Quanto è attuale oggi il socialismo federalista, democratico e liberale di Norberto Bobbio, di Ernesto Rossi, di Piero Gobetti, teorizzato ormai quasi ottant’anni fa, prima del crollo del fascismo e dei regimi comunisti, da Carlo Rosselli?

Personalmente credo che Socialismo liberale sia un saggio ancora molto attuale e soprattutto molto utile al dibattito che si sta sviluppando in Italia attorno al Partito Democratico. Bisognerebbe provare a fermarsi e rileggere quelle poche ma molto intense pagine.

Da grande studioso qual’era Carlo Rosselli inizia con un’analisi lucida e straordinariamente precisa del socialismo Marxista, in Europa e in Italia, dalla sua rivelazione alla sua revisione. Fu proprio in Italia, secondo Rosselli, che si passò dall’approvazione dogmatica e tonante delle tesi di Marx a un coro di «monotoni ripetitori. Le parole continuavano a frullare, ma i fatti erano scarsi e lo spirito sempre più utilitario e meschino». Fu anche per questo che all’inizio del secolo la gioventù «– intendo la intelligencija – corse tutte le esperienze, fuor che quella socialista che [...] fu volta a volta crociana, vociana, liberale, futurista, nazionalista, cristiana, ma non fu più socialista. Il socialismo non interessava più», e fu proprio per questo, o anche proprio per questo, che dopo pochi anni si impose il fascismo.

Certamente un limite del marxismo, afferma Rosselli, fu la sua applicazione, reale e concreta, non nel paese più progredito economicamente, gli Stati Uniti, come suggerivano le tesi di Marx, ma nel paese più arretrato, la Russia: «le stesse esperienze della guerra e del dopoguerra hanno capovolto le previsioni marxiste. La rivoluzione sociale è scoppiata nel paese più arretrato, la Russia; mentre il paese più progredito, gli Stati Uniti, superava la crisi col minimo di scosse». Inoltre il marxismo solo pochissimi anni dopo la sua rivelazione poteva dirsi già sorpassato proprio perché il Marx economiasta non fece in tempo a vedere e studiare la forma più progredita del capitalismo, tecnicizzato e teorizzato, quello che si stava affermando con Ford negli Usa all’inizio del XX secolo. Marx infatti scrive il Capitale e il Manifesto in un’Europa che si sta velocemente rinnovando, che sta velocemente abbandonando la sua struttura medioevale, ma in ogni caso un’Europa molto diversa da quella del XX secolo che vive Rosselli. «In una riflessione tra Marx e un filatore di cotoni o un produttore di caldaie di Birmingham, Marx avrebbe riportato indubbiamente la palma. [...] ma immaginate oggi un marxista ortodosso alle prese con Ford e sentirete come tutte le sue rivendicazioni e requisitorie nell’ordine produttivo si spuntino contro le realizzazioni di Ford».
Ovviamente Rosselli, da grande intellettuale qual’era, si sofferma sull’«ordine produttivo» delle tesi marxiste, per Rosselli, infatti, esse, e lo sottolinea più volte, sono sorpassate sul piano economico e produttivo, non sul piano morale. E così Rosselli non esita «a dichiarare che la rivoluzione socialista sarà tale, in ultima analisi, solo in quanto la trasformazione della organizzazione sociale si accompagnerà ad una rivoluzione morale, cioè alla conquista, perpetuamente rinnovatesi, di una umanità qualitativamente migliore, più buona, più giusta, più spirituale».

Il socialismo, quindi, «colto nel suo aspetto essenziale, è l’attuazione progressiva della idea di libertà e di giustizia tra gli uomini». Il socialismo deve per Rosselli tendere a farsi sempre più liberale e il liberalismo a sostanziarsi di lotta proletaria. «Il socialismo non è che lo sviluppo logico, sino alle sue estreme conseguenze, del principio di libertà. [...] il socialismo è liberalismo in azione, è libertà che si fa per la povera gente».E per ottenere questo, in una società come quella italiana che non aveva ancora avuto lotte per la libertà, ma che di lì a poco l’avrebbe avuta, bisognava, e bisogna ancora, riorganizzare «il movimento socialista su basi affini a quelle del partito del lavoro britannico: far centro cioè sul movimento operaio, tendente per legge fisiologica all’unità [...] e accompagnar quello con una costellazione di gruppi politici, di associazioni culturali, di organismi cooperativi, mutualistici, ecc. Concepire cioè il partito di domani con uno spirito ben più largo e generoso di quello che ieri non fosse, come sintesi federativa di tutte le forze che si battono per la causa del lavoro sulla base di un programma costruito di lavoro». Di qui, ma non solo, l’attualità del socialismo liberale. «I partiti quando salgono al potere non debbono governare per sé, ma per tutti».

I testi virgolettati sono tratti da CARLO ROSSELLI, Socialismo liberale, con introduzione e saggi critici di Norberto Bobbio, a cura di John Rosselli, Einaudi, Torino 1997.

mercoledì 13 febbraio 2008

Un pensiero sulla scuola di Garbatola















Sollecitato da alcuni amici, che unici, assordati da tutto il silenzio che circonda quell’opera, provano a gridare a gran voce i suoi problemi, cercherò di dire anch’io la mia sul progetto di ampliamento della scuola del mio piccolo paese, Garbatola.
Una scuola semplice, severa, dritta e al centro del paese, tra il circolo familiare, l’oratorio e la chiesa, una scuola come ce ne sono tante in campagna. Costruita nei primi anni della liberazione dai primi amministratori democratici di Nerviano, e tra questi anche da mio nonno – capirete quindi l’attaccamento anche personale a quel vecchio edificio –, uno di quei giovani che pochi anni prima erano stati partigiani e liberatori della nostra scalcinata nazione, recentemente, qualche anno fa, fu oggetto di un progetto di ristrutturazione e di ampliamento.

Non ho detto niente sin ora di quel progetto, ora realizzato, perché non mi piace parlare male dei colleghi, e non lo farò nemmeno sotto tortura, e insieme non mi sembra utilissimo, ne a me – visto che questo è un diario personale, anche se pubblico –, ne a chi legge, scrivere e descrivere una brutta architettura. Mi soffermerò quindi su cos’era quella scuola, e poi su cos’è diventata.

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Quella scuola era formata da una stecca, con un piccolo atrio, un lungo corridoio e le aule affacciate a sud, protette da grandi alberi, che guardavano verso il campo da calcio dell’oratorio. Si entrava da davanti, in una via quasi insignificante ma fondamentale, che divide l’oratorio dalla scuola, nel mezzo del paese, una strada pedonale per natura, si entrava per una scalinata non monumentale, non ridondante, ma nemmeno muta, una scalinata orgogliosa della sua semplicità. Sopra la scalinata una grande finestra, una tettoia e l’asta per la bandiera nazionale.
Non un decoro, nessuna volontà di apparire, solo una certezza, la certezza dell’essere ferma nel centro del paese. Una scuola moderna – allora –, soprattutto una scuola nuova, democratica, che si contrapponeva alle vecchie scuole fasciste, le Enzo Zerboglio di via Carlo Porta – dove studiarono, si fa per dire, i miei nonni e la loro generazione –.
Presto quella scuola, come tutti gli edifici pubblici italiani, che soffrono di una grave malattia genetica, la noncuranza, si rovinò: i serramenti divennero vecchi in fretta, i lavandini iniziarono a perdere acqua, l’impianto fu presto da rifare e le normative per i disabili furono applicate solo in parte. L’allora amministrazione leghista decise di metterci mano e lo fece pesantemente.

Ora alla vecchia scuola si entra da dietro, non più dal cuore del paese. Ora i bambini, che escono di corsa e che non vedono l’ora di uscire per andare a giocare a pallone in oratorio, uscendo non trovano più la porta del campo da calcio aperta, ora i bambini escono direttamente su una delle poche strade trafficate del paese.
Ora la vecchia scuola non ha più quella scalinata, non ha più quell’orgogliosa facciata, non ha nemmeno più quel vecchio color calce, è fatta di un verdino, non un bel verde leghista – orrendo ma comprensibile, nella sua logica perversa – ma un verdino spentino e timidino.
Ora quella scuola ha una sala civica che sarebbe meglio definire un’aula civica, certamente utile, certamente comoda, ma tutto fuorché bella, anzi devo dire un poco sciatta e dimessa.

Per questi pochi ma intensi motivi, che potrebbero essere anche molti di più, non scriverò più di cose brutte, che purtroppo ci sono ­– e giustamente vengono protocollate in comune da associazioni e singole persone – e ci sono con tutta la loro durezza e con tutta la loro irreversibile presenza, perché dalle cose brutte non si impara nulla, se non a cercare di non rifare sempre gli stessi errori.
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Per l'amico Alessandro e le sue giuste battaglie.

lunedì 11 febbraio 2008

Rafael Moneo. L'aeroporto San Pablo di Siviglia.


















«Costruire forme ritrovando per l’architettura una perduta identità. Legarla alle culture, regioni, ai luoghi, ai loro tratti antichi. Ricostruire radici che l’omologazione tende a cancellare. E con le radici, restituire alle forme nuove legittimità e riconoscimento collettivo. Questo sembra essere stata l’ansia della modernità e delle sue illusioni, ma che portava a supporre che le forme si perpetuassero per discendenze lineari, per ideali successioni, a partire da un nucleo autentico, da un’antica immedesimazione.
È vero invece che l’architettura si costruisce anche attraverso reti di analogie, attraverso rapporti a distanza che sempre hanno legato tra loro le città e gli edifici. Di questi rapporti ci si è scordati. Si è scordato come le città non nascano solo dalla singolarità dei luoghi e dalla densità della terra, ma da mescolanze e intrecci, da ripetizioni e richiami, da scambi ed echi, da rapporti analogici e da forme imitative» (DANIELE VITALE, Il Viaggio dell’Architettura).


L’architettura degli aeroporti da sempre ha richiamato o si è riferita, in modo più o meno diretto, a quel sofisticato mondo industriale e tecnologico di cui l’aeronautica è parte, con edifici che alludono formalmente a quel mondo, servendosi della tecnica e della tecnologia costruttiva come punto fondamentale e fondativa del progetto. Spesso l’aeroporto viene paragonato all’aereo, tanto in termini materiali quanto formali. Non è il caso dell’aeroporto San Pablo di Siviglia. A «Siviglia l'oggetto necessario è ridotto soltanto a pochi elementi tecnici che ancora permettono di identificarne la funzione il resto è evocazione visiva»[1].

Progettato nel 1992 dall’architetto navarro Rafael Moneo[2] l’aeroporto di Siviglia si costruisce attraverso l’evocazione e il confronto diretto con altre architetture antiche, che sono prese come termine di paragone, a volte indirette a volte direttissime: è il caso della moschea di Córdoba.















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Situato a circa dieci chilometri a nord est della città e si tratta di un edificio isolato in piena campagna, senza alcun riferimento alla città se non la strada che lo collega a essa, da qui l’importanza del rapporto terminal-strada che lo attraversa. Come in alcuni progetti di Le Corbusier la strada entra e attraversa l’edificio, contribuendo in modo decisivo alla definizione della sua struttura. La via di collegamento con Siviglia si converte quindi in vera origine della geometria dei due diaframmi paralleli e lineari che compongono la pianta dell’edificio, la corte patio dei parcheggi e la stecca ipostila dei terminal. E tutto il progetto, come nelle moschee andaluse, quella di Córdoba, ma anche quella di Siviglia, si costruisce sul rapporto tra patio degli aranci e basilica-moschea colonnata. Il parcheggio diventa così per Moneo un vero e proprio patio degli aranci, punto chiave di tutto il complesso. Tutto gira attorno al patio. Il patio parking è l’ultimo contatto dei viaggiatori con la terra.
La sala ipostila è invece costituita da una doppia serie di cupole, sostenute da grandi archi poggianti su un unico pilastro coronato da un capitello, cupole blu che creano uno spazio dilatato, quasi infinito, bucato dai grandi lucernari zenitali che diffondono la luce andalusa nel grande spazio scuro della sala.

L’azzurro intenso delle cupole e dei rivestimenti interni è richiamato all’esterno dal colore delle coperture, realizzate con sistemi tradizionali ma con tegole in vetro speciali, prolungando un contrasto fondamentale alle latitudini dove la luce è di intensità così forte. Le facciate sono in blocchi di cemento realizzati con sabbie del luogo, che conferiscono all’edificio una tonalità di giallo tipica della terra Andalusa.
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[1] GIORGIO GRASSI, Il carattere degli edifici, pubblicato in “Casabella”, LXVIII, n. 722, maggio 2004, p. 5.

[2] José Rafael Moneo Vallés, più conosciuto come Rafael Moneo (Tudela, 9 maggio 1937) è un architetto spagnolo. Dopo essersi laureato nel 1961presso la Escuela Tècnica Superior de Arquitectura di Madrid (ETSAM), lavora presso lo studio di Jørn Utzon a Hellebaek, in Danimarca per due anni. Poi dal 1963-65 studia a Roma dove ha vinto una borsa presso l'Accademia di Spagna. Nel 1976 parte per gli USA e lavora per due anni nell'Istituto di Architettura e Studi Urbani di New York. Ha realizzato numerosi progetti in tutto il mondo, e ha ricevuto molti riconoscimenti fra cui il prestigioso Premio Pritzker nel 1996.

giovedì 7 febbraio 2008

A.A. Amianto Abusivo

Ricevo, e pubblico volentieri, questo piccolo testo già pubblicato su un blog di un amico, il blog di Alessandro Rovellini: htt://alerove.blogspot.com . Le foto sono di Alessandro Rovellini.


















«Nel 1901 viene inventato da un austriaco una lega cemento-amianto talmente resistente che battezzerà Eternit (dal latino Aeternitas, eternità).
Dal 1903 al 1984 l'eternit viene molto usato per realizzare oggetti di uso quotidiano e trova impiego soprattutto in edilizia.
Quando si scoprì che uno dei suoi componenti, l'asbesto, dava origine ad una precisa forma cancerogena, il mesotelioma pleurico, si cercò di sostituire questo materiale con altre resine sintetiche. Nel 1992 il governo Italiano vietò l'uso di amianto.
Molti edifici oggi hanno ancora tetti, tettoie, cisterne, tubi per l'acqua, canne fumarie in eternit, che di per se non sono cancerogene, ma che diventano pericolose quando si spezzano, dato che il materiale degradandosi immette nell'aria piccoli "aghi" di amianto che inalati causano la mesotelioma.
Lo smaltimento dell’amianto è ancora oggi assai costoso, ovviamente perché è un processo molto delicato. Ma è realmente così?
Incoraggiato dalla temperatura mite e dal sole che splendeva nel cielo blu, oggi ho deciso di andare a fare un giro in MTB nei campi che circondano Garbatola, il paese in cui vivo. Arrivato sul ponte di Villanova ho deciso di seguire una vecchia strada di campagna, percorsa per lo più da trattori e al ponte che congiunge le due sponde del torrente Bozzente ho notato delle strane tracce di pneumatico in un campo dove vi era del frumento, incuriosito le ho seguite. Seguendo il sentiero sono arrivato a una cava abbandonata, dove fino ad alcuni anni fa vi era un poligono per il tiro a segno – il tiro a Segno San Giovanni –, e giuntovi ho notato un cumulo di detriti, mi avvicino: sono tegole di Eternit, un cumulo di tegole di eternit ROTTE!
Cosa ci fanno dei cumuli di lastre di Eternit in una cava in mezzo ai campi? chi le ha abbandonate in quel posto? una ditta specializzata nello smaltimento di eternit o un'impresa edile? Sinceramente non ho nessuna idea di chi può essere stato a lasciare detriti di un materiale così pericoloso, tossico, in una vecchia cava.
Dato che l’Amministrazione Comunale di Nerviano, o qualche suo addetto, credo, o qualche volontario, ha liberato da detriti tossici di questo tipo un altro luogo vicino alla cava stessa, spero che si possa provvedere presto alla bonifica di quest'area, anche se in primo luogo spetterebbe a chi lo ha abbandonato in mezzo al verde.

Colgo l’occasione per gridare a tutti di denunciare qualsiasi tipo di inciviltà e di scarico abusivo, soprattutto se si tratta di materiali tossici e pericolosi per la salute pubblica»[1].

















[1] Da ALESSANDRO ROVELLINI, Asbesto tra gli alberi, VERGOGNA!, pubblicato su http://alerove.blogspot.com il 7 febbraio 2008.

mercoledì 6 febbraio 2008

2008 volte grazie

Duemila e otto volte grazie. Spero possa diventare uno spazio di discussione e di riflessione, un luogo dove fermarsi, dove confrontasi e dove insieme provare a progettare. Grazie.


Two thousand and eight times "Thank You" to the visitors over the three past weeks of 2008. I hope this can become a place to discuss and thinking over, to stop by and start conceiving, together. Thank You

martedì 5 febbraio 2008

Non demolite il Teatro Romano di Sagunto















Il rapporto tra monumenti, rovine e vita quotidiana è una questione che sembra «improponibile oggi, anche se l’incuria e il degrado del nostro patrimonio monumentale sono sotto gli occhi di tutti»[1]. Il moltiplicarsi degli scavi e delle scoperte archeologiche, e la crescente importanza della dimensione sotterranea della città, hanno prodotto un sistema diffuso di cicatrici e di ferite: irrisolti spazi di risulta della città moderna, a testimoniare il grave dissidio tra sistemazione architettonica, esigenze di scientificità della conservazione e proseguimento delle campagne di scavo.
Dove proseguire gli scavi? È possibile intendere lo scavo non solo come strumento per cercare nelle viscere dei luoghi la diretta testimonianza di un passato ormai sepolto, ma anche come momento evocativo della città antica e fondativo di quella contemporanea? Esiste infine un rapporto diretto tra gli edifici e il passato che i luoghi in cui sorgono nascondono: «quel passato nel quale inevitabilmente ci imbattiamo quando inizia il primo lavoro richiesto dalla costruzione, cioè lo scavo che precede il processo di fondazione»[2]?
L’instaurarsi di una logica dell’emergenza in occasione di qualsiasi ritrovamento antico, ha finito col disseminare la città contemporanea di un gran numero di ruderi e strutture informi di difficile identificazione, spesso circoscritti da recinzioni e sbarramenti.






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Nell’ultimo ventennio del novecento in Spagna alcuni progetti realizzati si sono posti in modo particolare il tema dell’evocazione dell’antichità e il rapporto con la rovina: è il caso del Museo di Arte Romana di Mérida, di Rafael Moneo, e del restauro del Teatro Romano di Sagunto, di Giorgio Grassi e Manuel Portaceli.
Si tratta di due atteggiamenti diversi nel primo caso Moneo realizza un galleria moderna che si riferisce alla romanità e alla sua idea di architettura evocandola direttamente, con i grandi muri e gli arconi in laterizio, e che evocandola la interpreta e si offre come soluzione per il presente; a Sagunto invece «l’oggetto del progetto e quello dell’evocazione sono lo stesso oggetto, non c’è niente che li tenga lontani l’uno dall’altro [...] un processo di identificazione e di confronto esclusivo, condotto fino alle ultime conseguenze, senza curarsi del risultato ma solo della sua autenticità, cioè della sua libertà espressiva comunque vincolata al suo proprio tempo. Tutto il resto viene escluso a costo di farlo risaltare, come in effetti risulta, un teatro incompleto»[3].

Il restauro del Teatro Romano di Sagunto ha avuto una vicenda travagliatissima. Pubblicato su quasi tutte le riviste internazionali e vincitore di molti premi di architettura, è stato attaccato duramente sin dall’inizio, soprattutto per ragioni politiche. Dopo 15 anni sembrava che le polemiche, e soprattutto che le richieste di abbattimento della grandiosa scena fronte, ricostruita dagli architetti Grassi e Portaceli, si fossero definitivamente taciute e invece un mese fa la sentenza definitiva del tribunale supremo di Madrid: il teatro deve essere abbattuto e ricondotto alla sua condizione, presunta iniziale, di rovina.
Oggi il teatro è utlizzato per quello che è un grande teatro romano, non solo come rovina da ammirare in silenzio. Ma perché il teatro di Sagunto deve rimanere per sempre una rovina?
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Il teatro di Sagunto sorge a metà strada tra la città e l’acropoli, fra il centro storico attuale e ciò che resta dell’antico castello, sorto sulle rovine dell’antico foro romano, e questo suo carattere è stato assunto come dato oggettivo e come base del progetto. Inoltre a Sagunto la presenza della rovina antica, cioè di un edificio reale, o di ciò che ne restava è divenuta per Grassi la pietra di paragone del progetto, il nuovo non si è imposto come presenza annientatrice sul vecchio, e insieme ha sempre demandato alle antiche rovine quelle « risposte che non è stato in grado di dare, senza per questo dover fingere che queste risposte gli appartengono. Infatti [...] la risposta del nuovo rimane comunque incompleta, aperta, come in attesa; e con il vecchio li acanto a dare muta testimonianza di sé: il vecchio, complemento necessario del progetto, che non può dare utili suggerimenti, né tantomeno alibi o garanzie»[4]. E così la scena, ricostruita nella sua imponente astrazione, porta in se come un doppio carattere di monumento non finito, con i grandi muri lisci e non decorati, in mattoni, e di scena urbana, con le grandi finestre, le finestrelle e le ringhiere metalliche, che riprendono direttamente i fronti delle case del centro storico.

Io credo che il teatro di Sagunto sia una delle opere più straordinarie del XX secolo, un manuale di architettura, nel senso più ampio del termine, e per questo sono certo che deve esser salvato da questa barbarie.
Si prega a chi ha intenzione di aggiungersi al manifesto di scrivere un'e-mail a manifiestoteatrosagunt@gmail.com con NOME E COGNOME INDIRIZZO e NUMERO DI CARTA DI IDENTITÁ.

[1] GIORGIO GRASSI, Teatro Romano di Brescia. Progetto di restituzione e riabilitazione, Documenti di Architettura, Electa, Milano, 2003, p. 7.

[2] RAFAEL MONEO, La solitudine degli edifici e altri scritti, Vol. II, Sugli architetti e il loro lavoro, Umberto Allemandi & C., Torino, 2004, p. 95.

[3] GIORGIO GRASSI, Il carattere degli edifici, pubblicato in “Casabella”, LXVIII, n. 722, maggio 2004, p. 8.

[4] GIORGIO GRASSI, Architettura, lingua morta, in Giorgio Grassi. I progetti, le opere e gli scritti introduzione di Juan José Lahuerta, a cura di Giovanna Crespi e Simona Pierini, Documenti di Architettura, Electa, Milano, 1996, p. 394.

lunedì 4 febbraio 2008

Manuel Portaceli sobre el Teatro Romano de Sagunt


El arquitecto valenciano Manuel Portaceli, autor junto al italiano Giorgio Grassi de la rehabilitación del Teatro Romano de Sagunt (Valencia), aseguró hoy que acata "por su puesto" la sentencia del Tribunal Supremo que obliga a revertir esta obra en 18 meses aunque "no la comparto" y recalcó que "haber convertido en un momento dado el monumento en un arma arrojadiza va en contra del hecho artístico". Portaceli expresó a Europa Press su "pesar" por la decisión del ato tribunal, "que acato, por supuesto, aunque no comparto porque priva de una infraestructura cultural a los saguntinos y a los ciudadanos en general". Igualmente, lamentó que "un tema que pertenece al ambito de la cultura se haya transformado en una cuestión jurídica cuando era un hecho artístico", dijo.

Asimismo, el arquitecto reivindicó el trabajo de recuperación llevado a cabo en el teatro y recordó que esta rehabilitación "se estudia en las principales universidades europeas, figura en la historia de la arquitectura y resultó finalista de los prestigiosos premios Mies van de Rhoe". En este sentido, el autor valenciano agregó que "hicimos el proyecto que pensábamos que correspondía poniendo lo mejor de nosotros mismos" y subrayó que "en su día fue aprobado por las autoridades pertinentes". Por ello, aseguró no conocer "ningún caso en el mundo" que se pueda comparar con la situación creada en Sagunt tras la sentencia dictada por el Tribunal Supremo. Esta circunstancia ha hecho que también su colega Giorgio Grassi se encuentre en estos momentos "muy sorprendido" por los hechos, aseguró. Interrogado por su opinión acerca de si la reversión de las obras es factible, Portaceli sólo comentó que "el escenario es junto a las gradas el espacio característico del teatro romano" por lo que eliminarlo "es privarle de esa recuperación".

TEMA JUDICIAL Y ADMINISTRATIVO Manuel Portaceli apuntó que ningún representante de la Administración se ha puesto en contacto con él tras el fallo del Supremo y lo atribuyó a que ahora este es un "tema a nivel judicial y administrativo". El arquitecto recalcó que "hicimos el proyecto que pensábamos que correspondía buscando la lectura de un monumento". "Que el Teatro Romano, por desgracia, se convirtiera en un arma arrojadiza va en contra del hecho artístico", sentenció.
La sección cuarta de la sala de lo contencioso-administrativo del Tribunal Supremo confirmó la pasada semana la decisión del Tribunal Superior de Justicia de la Comunitat Valenciana (TSJCV) sobre la forma en que se ejecutará la reversibilidad de las obras del Teatro Romano de Sagunt, establecida en el auto de ejecución en un período de 18 meses. Según el alto tribunal, ese auto es "cuidadoso" y "preciso" en cuanto a la intervención sobre el teatro, que se ha hecho "guiado por la opinión de los expertos". De esta manera, la sala desestimó el recurso de casación interpuesto por el Ayuntamiento de Sagunt frente al auto del TSJCV que desestimaba su recurso de súplica en el que pedía que la ejecución garantizara el continuado uso cultural del teatro, y estimaba en parte el interpuesto por la Generalitad, fijando como plazo de realización de las obras un periodo de 18 meses.

Dichiarazione rilasciata da M. Portaceli il 4 febbraio 2008 a Europa Press e pubblicata sul sito http://www.e-valencia.org/ portale di discussione sulla politica culturale della comunità valenciana.

Apoyo masivo a la reforma del teatro de Sagunto




Un millar de actores, directores, pintores, arquitectos, escritores, periodistas y otros profesionales del mundo de la cultura han firmado un manifiesto en el que se oponen a la demolición de la reforma del teatro romano de Sagunto. A juicio de los firmantes, "el teatro es una joya del patrimonio nacional y su restauración, que estuvo a cargo de los arquitectos Giorgio Grassi y Manuel Portaceli, goza de gran prestigio internacional". El manifiesto, que se ha hecho público en Madrid, resalta que "el proyecto ha sido víctima de la batalla política entre el PSOE y el PP después de que un diputado autónomico de los populares en Valencia llevara la reforma a los tribunales en 1993". La rehabilitación fue aprobada cuando el PSOE gobernaba la Generalitat valenciana. El Supremo ha ordenado ahora la demolición en 18 meses.


Entre los firmantes figuran actores como Vicky Peña y María Asquerino, directores como José Carlos Plaza y Lluís Pasqual, músicos como Joan Manuel Serrat o artistas como Carmen Calvo. El presidente de los arquitectos españoles, Carlos Hernández Pezzi, pide una moratoria para cambiar la Ley de Patrimonio y evitar la demolición.
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(Dal sito internet del quotidiano spagnolo nazionale EL PAIS http://www.elpais.com/ sezione cultura)