martedì 5 febbraio 2008

Non demolite il Teatro Romano di Sagunto















Il rapporto tra monumenti, rovine e vita quotidiana è una questione che sembra «improponibile oggi, anche se l’incuria e il degrado del nostro patrimonio monumentale sono sotto gli occhi di tutti»[1]. Il moltiplicarsi degli scavi e delle scoperte archeologiche, e la crescente importanza della dimensione sotterranea della città, hanno prodotto un sistema diffuso di cicatrici e di ferite: irrisolti spazi di risulta della città moderna, a testimoniare il grave dissidio tra sistemazione architettonica, esigenze di scientificità della conservazione e proseguimento delle campagne di scavo.
Dove proseguire gli scavi? È possibile intendere lo scavo non solo come strumento per cercare nelle viscere dei luoghi la diretta testimonianza di un passato ormai sepolto, ma anche come momento evocativo della città antica e fondativo di quella contemporanea? Esiste infine un rapporto diretto tra gli edifici e il passato che i luoghi in cui sorgono nascondono: «quel passato nel quale inevitabilmente ci imbattiamo quando inizia il primo lavoro richiesto dalla costruzione, cioè lo scavo che precede il processo di fondazione»[2]?
L’instaurarsi di una logica dell’emergenza in occasione di qualsiasi ritrovamento antico, ha finito col disseminare la città contemporanea di un gran numero di ruderi e strutture informi di difficile identificazione, spesso circoscritti da recinzioni e sbarramenti.






.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
..
.
Nell’ultimo ventennio del novecento in Spagna alcuni progetti realizzati si sono posti in modo particolare il tema dell’evocazione dell’antichità e il rapporto con la rovina: è il caso del Museo di Arte Romana di Mérida, di Rafael Moneo, e del restauro del Teatro Romano di Sagunto, di Giorgio Grassi e Manuel Portaceli.
Si tratta di due atteggiamenti diversi nel primo caso Moneo realizza un galleria moderna che si riferisce alla romanità e alla sua idea di architettura evocandola direttamente, con i grandi muri e gli arconi in laterizio, e che evocandola la interpreta e si offre come soluzione per il presente; a Sagunto invece «l’oggetto del progetto e quello dell’evocazione sono lo stesso oggetto, non c’è niente che li tenga lontani l’uno dall’altro [...] un processo di identificazione e di confronto esclusivo, condotto fino alle ultime conseguenze, senza curarsi del risultato ma solo della sua autenticità, cioè della sua libertà espressiva comunque vincolata al suo proprio tempo. Tutto il resto viene escluso a costo di farlo risaltare, come in effetti risulta, un teatro incompleto»[3].

Il restauro del Teatro Romano di Sagunto ha avuto una vicenda travagliatissima. Pubblicato su quasi tutte le riviste internazionali e vincitore di molti premi di architettura, è stato attaccato duramente sin dall’inizio, soprattutto per ragioni politiche. Dopo 15 anni sembrava che le polemiche, e soprattutto che le richieste di abbattimento della grandiosa scena fronte, ricostruita dagli architetti Grassi e Portaceli, si fossero definitivamente taciute e invece un mese fa la sentenza definitiva del tribunale supremo di Madrid: il teatro deve essere abbattuto e ricondotto alla sua condizione, presunta iniziale, di rovina.
Oggi il teatro è utlizzato per quello che è un grande teatro romano, non solo come rovina da ammirare in silenzio. Ma perché il teatro di Sagunto deve rimanere per sempre una rovina?
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.
.

Il teatro di Sagunto sorge a metà strada tra la città e l’acropoli, fra il centro storico attuale e ciò che resta dell’antico castello, sorto sulle rovine dell’antico foro romano, e questo suo carattere è stato assunto come dato oggettivo e come base del progetto. Inoltre a Sagunto la presenza della rovina antica, cioè di un edificio reale, o di ciò che ne restava è divenuta per Grassi la pietra di paragone del progetto, il nuovo non si è imposto come presenza annientatrice sul vecchio, e insieme ha sempre demandato alle antiche rovine quelle « risposte che non è stato in grado di dare, senza per questo dover fingere che queste risposte gli appartengono. Infatti [...] la risposta del nuovo rimane comunque incompleta, aperta, come in attesa; e con il vecchio li acanto a dare muta testimonianza di sé: il vecchio, complemento necessario del progetto, che non può dare utili suggerimenti, né tantomeno alibi o garanzie»[4]. E così la scena, ricostruita nella sua imponente astrazione, porta in se come un doppio carattere di monumento non finito, con i grandi muri lisci e non decorati, in mattoni, e di scena urbana, con le grandi finestre, le finestrelle e le ringhiere metalliche, che riprendono direttamente i fronti delle case del centro storico.

Io credo che il teatro di Sagunto sia una delle opere più straordinarie del XX secolo, un manuale di architettura, nel senso più ampio del termine, e per questo sono certo che deve esser salvato da questa barbarie.
Si prega a chi ha intenzione di aggiungersi al manifesto di scrivere un'e-mail a manifiestoteatrosagunt@gmail.com con NOME E COGNOME INDIRIZZO e NUMERO DI CARTA DI IDENTITÁ.

[1] GIORGIO GRASSI, Teatro Romano di Brescia. Progetto di restituzione e riabilitazione, Documenti di Architettura, Electa, Milano, 2003, p. 7.

[2] RAFAEL MONEO, La solitudine degli edifici e altri scritti, Vol. II, Sugli architetti e il loro lavoro, Umberto Allemandi & C., Torino, 2004, p. 95.

[3] GIORGIO GRASSI, Il carattere degli edifici, pubblicato in “Casabella”, LXVIII, n. 722, maggio 2004, p. 8.

[4] GIORGIO GRASSI, Architettura, lingua morta, in Giorgio Grassi. I progetti, le opere e gli scritti introduzione di Juan José Lahuerta, a cura di Giovanna Crespi e Simona Pierini, Documenti di Architettura, Electa, Milano, 1996, p. 394.

Nessun commento: