lunedì 22 settembre 2008

Sull'urbanistica - Lettera in risposta ad un amico

Sono sempre più frequenti i casi in cui è facile constatare il fallimento dell'urbanistica, ormai palese e sotto gli occhi di tutti. L'urbanistica nello stato di diritto moderno e democratico non puo' esistere, purtroppo, se non in alcune schifose forme, se non legate a maeccanismi speculativi e clientelari.
Lo dico con rammarico ma purtroppo la differenza che un semplice gesto di un progettista, o piu' spesso di un amministratore per mano del progettista (inutile la replica degli amministratori...), la differenza di rendita fondiaria (di valore del terreno su cui quel gesto incide, per dirla in soldoni) provocata da quel gesto, tra chi sta dentro un retino colorato di rosso, giallo, arancio e uno che sta, dentro una zona bianca, verde, blu, e' talmente discriminante da fare vacillare qualsiasi idea di uguaglianza, di democrazia e di fiducia nell'urbanistica attuale [1].

Ovviamente all'estero la situazione non è tato dissimile, infatti quasi ovunque l'urbanistica, sarebbe meglio dire l'urbanistica fatta secondo il principio razionalista, se volete autoritaristico e centralizzato, della zonizzazione è stata sconfitta e soppiantata dal progetto. Qui si apre una seconda (e ultima, per ora) questione, la questione del progetto: delle scuole di architettura e della qualità dei professionisti primo, dei meccanismi di scelta da parte di amministratori e dell'immenso e incontrollato potere che questi hanno dall'altro. Mentre in Europa, in Spagna, in Germania, in Olanda, nei paesi scandinavi, esistono infatti concorsi trasparenti, amministratori preparati, progettisti disinteressati, insomma mentre esiste una cultura della legalità e della tutela del patrimonio pubblico incredibile, troppo spesso in Itailia i meccaniscmi di scelta dei professionisti non sono basati sul reale loro spessore, ma sono basati unicamente su logiche clientelari, siano esse politiche o economiche o entrambe.

Dimenticavo l'ultimo punto, quello del valore degli immobili [la lettera sollevava il problema del costo spropositato delle residenze].
Personalmente non credo che il sistema economico del libero mercato sia il sistema migliore, personalmente credo che ci dovrebbe essere più controllo da parte dello Stato, magari con uno strumento simile al vecchio e mai usato equocanone (sostanzialmente bocciato dai continui cambi di governo, dall'uccisione di Moro, dalla fine del vecchio, e vero, centro sinistra) o altri strumenti che i nostri politici romani e lombardi dovrebbero inventarsi (ma anche qui le speranze sono vane, dato, per esempio che i nostri strumenti legislativi in merito alla tutela del paesaggio e all'architettura in generale risalgono al 1939 e che siamo la regione - la Lombardia - della devastazione pianificata, del recupero dei sottotetti, delle villette e dei villini da cumenda). Fin che ciò non sarà, purtroppo la vita sarà più facile, non solo a Cortina ma ovunque [nella lettera si parla della sentenza contro il PRG di Cortina] per chi ha i soldi, calciatori, politici, "abitanti" di Cortina e Capri, e sarà difficilissima, quasi impossibile, per giovani idealisti, studenti, contrattisti, ricercatori e per chi in generale non arriva a 1000 euro al mese, ecc.

[1] In realtà il PCI, Partito Comunista Italiano, riuscì a fare approvare in parlamento una legge in cui si prevedeva la SEPARAZIONE TRA IL DIRITTO DI PROPRIETA', diritto per altro in quegli anni duramente contestato dal mio quasi conterraneo, di mia madre, Albino Luciani, e il DIRITTO DI EDIFICABILITA': il primo era del cittadino, il secondo dello Stato (e quindi incontestabile e, data la moralità dell'allora PCI, inattaccabile dalle forze economiche e sociali). Questa sottigliezza, e altre (per esempio il fallimento del piano per la casa e della legge sull'equo canone), è stata poi negata dalla cassazione con sentenza n.5/80 ed è cominciato questo processo di progressiva deregulation, processo oggi giunto al culmine.

2 commenti:

Anonimo ha detto...

L'urbanistica muore soffocata dall'ingordigia dei costruttori e dall'ignavia (nel migliore dei casi) degli amministratori pubblici. Ma muore anche nel disinteresse dei cittadini il cui accenno di reazione quando si parla di piani è legato al pensiero di sopralzare casa o farsi il garage.
Se le va ci visiti al blog http://salviamopiazzatorre.blogspot.com anche noi cerchiamo di parlare di urbanistica, nel nostro piccolo. Saluti.

Samuele Baganella ha detto...

Risposta alla risposta ad una lettera di un amico di un altro sull’urbanistica
Il tuo post del 19/09 ha toccato temi forti che premono a tutti i professionisti dediti alla costruzione del territorio. La risposta che ho sollecitato ad andrea (mio compagno di studi) e che appieno condivido, insieme alle tue stesse critiche, è ben rappresentante il sentimento comune riguardo al rapporto tra etica e urbanistica nella realtà italiota.

Però, la lettura delle tue parole hanno richiamato in me (o forse l’ho voluto vedere io) un tema che molto mi aveva appassionato da studente e, quindi, chiedendo asilo su questo tuo eremo virtuale e senza timore di “pisciare fuori da vaso”, avvio questo mio che sicuramente ai più risulterà noioso ed inutile. Mi appresto, confidando di stimolare il rimbrotto di qualcuno.

Urbanistica e progetto (inteso come progetto architettonico) è una dicotomia complessa da affrontare specialmente se la si legge a partire delle facili impressioni che ci suggestiona l’attuale fase storica.

Vorrei cominciare da un punto fermo e condiviso, ovvero che il piano razionalista (inteso come percorso metodologico e strumento disciplinate) sia arrivato al termine della sua vita utile. Ma non dico cosa non nota. Anzi: il susseguirsi di adeguamenti nel pulviscolo delle normative regionali di settore volte a demolirne le basi ne è, forse, la prova più lampante. Mi chiedo però, quando viene a mancare nella attuale costruzione (ricostruzione forse è meglio dire) del territorio la sovrastruttura che da decenni disciplina il progetto architettonico, è il solo progetto architettonico che rimane? E’ solo ad esso che viene demandata ogni scelta? Anche quelle che investono un ambito maggiore di quello di progetto?
L'affermazione è, dal mio punto di vista, forse troppo semplicistica.

Concedimi una premessa.
Il "nostro" piano razionale nasce in una fase storica in cui la necessità prima era, forse implicitamente, il normare la crescita della città. La struttura metodologica e gli strumenti regolativi che la disciplina gli fornì in quei frangenti furono sicuramente (fatte le giuste eccezioni) adeguati .
Fatta questa breve premessa, mi permetto di affermare (condividendo le tue parole) quanto segue: è il modello di zoning che entra in crisi; è il modello di piano, basato su una pianificazione per zoning/standard e nato negli anni trenta, che entra in crisi; personalmente ritengo che lo stesso concetto di strumento urbanistico generale è oggi assolutamente anacronistico.

Questa affermazione, forte, trova senso se si traguarda all’urbanistica come a quella disciplina volta a garantire metodo e buona norma alla gestione/interpretazione progettuale e continua del territorio; l’urbanistica così intesa è programmazione e consapevolezza delle dinamiche caratterizzanti il territorio, è governo consapevole (mi ripeto) delle forme e degli usi che caratterizzano un territorio.
E’ per questo semplice passaggio che (io) ritengo l’urbanistica non coincidente con il mero concetto di “piano generale” che ne è solamente uno degli strumenti, specialmente se si considera “piano” quello fuoriuscito dagli anni ‘60-’70 in cui disegno del territorio perdeva significato in favore della forza disciplinante della norma, determinando, talaltro, l’affievolirsi della capacità di interpretazione della componente fisica, intesa come equilibri di “pieni” e “vuoti”, nel progetto urbanistico stesso.

In questo senso, la fissione su tavola di scelte “generali” eseguita ogni 15 anni e seguita più o meno pedissequamente dagli uffici tecnici, non è urbanistica come non lo è neanche la completa de-regolamentazione e relativa improvvisazione per parti nella programmazione del territorio (il caso del “fungo” di Nerviano, giusto per guardare all’orto di casa, è esemplare).
Ma questa è un’altra storia.

Certo la storia urbana è ricchissima di interventi e trasformazioni di interi settori cittadini che alle spalle non avevano un piano normativamente classificato, metodicizzato e interessante tutto un territorio “normalizzabile”; ma nonostante ciò alcuni di questi interventi sono la storia dell’urbanistica. Ma cosa avevano questi “progetti urbani” ante litteram? Io intendo avessero o perseguissero una visone o un disegno strategico valido per l’intero insediamento urbano .
Si possono citare la Roma di Sisto V, gli interventi londinesi del ‘800, la Parigi di Napoleone III e Haussman, giusto per citare i primi che mi tornano in mente .
L’urbanistica, in questa lettura, coincide con l’esistenza di un disegno strategico ma è anche, e per essere disciplina tecnica, tutto quel set di soluzioni metodologiche, analisi settoriali, indicazioni normativi, strumentali all’attuazione della “visione” strategica.
In questo passaggio è contenuta la mia personale versione, forse banale, dell’urbanistica. Una interpretazione che vede la disciplina più vicina alle scelte tipiche della fase attuativa degli obiettivi strategici di piano che ai contenuti disciplinanti-normativi del piano stesso.

Non ritengo l’urbanistica quella macchia cangiante di colori che ricopre interi territori (che considero mera norma necessaria quanto utile, specialmente al progetto architettonico). Ritengo anzi che l’urbanistica debba tornare/cominciare a parlare di pieni e vuoti, debba occuparsi non solo di usi ammissibili nei contenitori edilizi (che per certi versi è addirittura insensato) senza minimamente occuparsi degli spazi aperti, ma di ruoli e compiti che spazi privati o collettivi debbano ricoprire al fine di perseguire quella visione di cui sopra.

In quest’ottica mi interessa inserire l’uso dello strumento dei progetti-concorso che citi.
Su tuo stimo mi sono immaginato di lasciare a singoli concorsi parziali la progettazione della città (tutta sarebbe nuovamente urbanistica). Subito ho sentito che manca un passaggio, un passaggio banale per carità: manca “il cosa chiedere nel bando” e con quali scopi si dà il via ad un bando per la progettazione di una vasta area urbana. Certo non è obbligatorio, ma mi sembra ovvio che un’amministrazione per essere eletta debba proporre un’idea per la propria città e le soluzioni per attuare i propri obiettivi (il più classico dei piani urbanistici con rilevanza strategica ) in cui, forse, il concorso di idee si inserisce come percorso per la trasformazione di un’area particolarmente rilevante per i destini urbani .

A riguardo ho trovato anche un secondo ordine di criticità all’ipotesi di demandare al solo concorso d’idee il luogo di definizione di ampi settori urbani. E’ sicuramente marginale rispetto ad una lettura più pragmatica ma ritengo possa trovare asilo in questo scritto sicuramente poco pragmatico. La domanda che mi pongo è la seguente: a quale titolo un’eventuale progetto vincitore di un bando completamente libero possa richiamarsi per cassificare come coerenti con l’interesse collettivo interventi, che pur privati che siano, hanno comunque vistosi effetti sul destino della comunità? Ti rammento che la definizione dell’interesse collettivo passa, in teoria, dal popolo e, quindi, dagli organi esso rappresentanti e non per la matita di un, per quanto bravo, tecnico o per la sapienza della giuria.

Mi spiego meglio. Ritengo che un eventuale progetto per vincere non dovrebbe essere il migliore in termini architettonici, ma il più vicino all’interesse collettivo stabilito nelle forme (giuste o sbagliate) previste dalla legge. Diviene quindi necessario (per coerenza teorica, va da sè) o dichiarare, elaborare e codificare questo “interesse collettivo” in modo chiaro ed univoco prima di avviare il concorso (o anche il singolo progetto) architettonico, oppure affidare la selezione tramite giudizio della comunità. Con ciò che ne consegue.


Lascio come ultimo passaggio questa riflessione: è necessaria la pianificazione di livello urbanistico? Forse non più di quanto sia necessario il progetto architettonico.
Difatti non possono bastare le indicazioni di committenti e le garanzie statiche e impiantistiche fornite da ingegneri e geometri?
Non mi addentro oltre, ma credo che la mancanza di un reale progetto urbanistico sia, in concorso con il troppo poco diffuso (dal punto di vista qualitativo) progetto “architettonico”, causa dei poveri panorami urbani delle nostre città e di altri ben peggiori problemi ed inefficienze.
Il rapporto tra governo urbanistico e progetto urbano e tra progetto architettonico e “intervento edilizio” (inteso come la realizzazione di un mero contenitore edilizio, dotato di sufficienze impiantistiche, ma non di quella qualità funzionale e culturale di ordine superiore che gli sarebbe garantita da una riflessione progettuale di natura architettonica), è molto simile nonostante le diverse scale e i differenti compiti.

Ma forse sappiamo a chi dare la colpa, vero?