lunedì 31 dicembre 2007

Concorsi di Architettura – Bilancio 2



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(continua)
Chiudere il 2007, per lo meno chiudere quella che per me è stata la sua parte pubblica e lavorativa, significa anche fare un bilancio sul tema dei concorsi.

A fronte della gravissima situazione di crisi in cui si trova l’architettura del nostro paese, sia quella privata, legata a una committenza che non ha termini di paragone rispetto la cultura architettonica del nostro tempo, sia quella pubblica, troppo litigiosa e rozza, anche un concorso di progettazione o un concorso di idee possono trasformarsi in sfide importanti e in momenti centrali nella formazione di un architetto. Credo di poterne parlare a buona ragione visto che in cinque anni, da quando cioè mi sono iscritto all’ordine degli Architetti di Milano, con altri amici e con alcuni studenti, ho partecipato a 17 concorsi di idee e di progetto – oltre a quelli a curriculum –. I concorsi sono insieme un modo per lavorare con altri architetti, ingegneri e studenti, e un modo per ragionare su cose altre rispetto la normale burocrazia di studio, un modo per essere costretti a studiare, un modo per progettare, e quindi, per un architetto, un modo per coniugare teoria e pratica.
Ma, tolta la dimensione teorico-pratica, quanto è utile partecipare a concorsi di progettazione o di idee nel nostro paese? Quanti concorsi possono davvero dirsi liberi da pressioni? Quanti concorsi non hanno già nomi e cognomi scritti in partenza? Esiste un sito internet che tenta di dare alcune risposte a queste mie domane, che non sono solo mie ovviamente, e non è un caso che a fronte di un dato positivo, il numero di amministrazioni comunali che ricorrono allo strumento del concorso aumenta progressivamente di anno in anno, c’è subito un dato negativo se si considera che sempre meno sono i giovani architetti che vincono questi concorsi. Inutile dire che negli altri paesi non è così.

A Nerviano a fine 2006 cambiò l’amministrazione, e dopo un lungo periodo, dieci anni, in cui le varie amministrazioni leghiste non fecero ricorso allo strumento del concorso di idee, o di progettazione, si sperava che la nuova amministrazione di centro sinistra imponesse subito un cambio di direzione.
L’occasione si presentò presto: la costruzione di una nuova scuola. Forse per impreparazione o forse per altro, le mie proposte per affidare l’incarico attraverso lo strumento del concorso di progettazione, anche solo la fase definitiva del progetto e non l’esecutiva, o la direzione lavori, fatte personalmente all’assessore ai LL.PP. non vennero mai prese in considerazione, e alle mie numerose domande non fu mai risposto.
All’inizio del 2007, o alla fine del 2006, non ricordo, le mie proposte, rese pubbliche su articoli e per posta elettronica, vennero sostenute e presentate in consiglio comunale dall’opposizione – la stessa che anni prima non aveva mai fatto concorsi per il vero –. Ovviamente la risposta fu negativa.

Ora il 2007 è passato e della nuova scuola nessuna traccia.
Era così difficile bandire con calma un concorso pubblico, diciamo entro marzo 2007, cioè molti mesi dopo la mia proposta – datata giugno 2006 – indicare come termine per la consegna dei lavori una data plausibile, diciamo maggio-giugno 2007, prendersi due mesi per i lavori della commissione giudicante e arrivare a presentare i lavori, con i vincitori, diciamo a settembre-ottobre 2007?

Ora il 2007 è passato e il bilancio in materia di architettura pubblica del Comune di Nerviano anche per quanto sopra esposto è ancora secondo me negativo e, tolta una piccolissima mostra di lavori di studenti della facoltà di Architettura Civile di Milano, coordinati dal prof. Antonio Esposito, da me e da altri docenti milanesi – di cui si trova uno scritto su questo blog –, o due convegni sulla casa ecologica e su un recupero di una parte storica di Nerviano – lavori comunque privati –, ancora una volta nessuno ha parlato di architettura pubblica.

Speriamo nel 2008. Buon anno.


venerdì 28 dicembre 2007

Parco Urbano, Parco Extraurbano e Parco Agricolo


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In questi giorni a Nerviano si sta accendendo una polemica – che spero sfoci in un dibattito costruttivo – su alcune aree considerate, secondo me se volete ingenuamente, da amministratori comitati e cittadini parchi pubblici. Ma astraendomi per il momento da quella polemica mi sorge subito una domanda: cos’è un parco o cosa si può intendere per parco. Può essere considerato parco un piccolo spazio, di poche centinaia di metri quadrati, con qualche altalena, una o due, uno scivolo, una vasca per la sabbia e un castello per bambini?

Ho già avuto modo su questo diario di scrivere in merito al Parco Agricolo sovracomunale del Roccolo, alla sua presente assenza, ora vorrei provare a fare chiarezza su quello che si può intendere, o che comunque all’estero comunemente si intende, per parco. Intanto bisogna distinguere tra parchi urbani e parchi extraurbani, vorrei per ora soffermarmi sui primi.

Erano certamente urbani, ma intesi in un senso diverso in una società diversa, i parchi del Rinascimento italiano, il Barco Ducale a Milano, antenato del parco Castello, o il Giardino di Boboli, o i Giardini Vaticani; ma anche i parchi del XVII e del XVIII secolo, quasi sempre legati alla presenza di Ville signorili urbane e sub urbane (MARCANTONIO DAL RE, Ville di delizia o siano palagi camperecci nello Stato di Milano, (ed. originale 1743), a cura di Pier Fausto Bagatti Valsecchi, edizioni Il Polifilo, Milano, 1963), come il giardino di Villa Litta a Lainate, o i giardini borromei sul lago Maggiore.
Indubbiamente a partire dal XIX secolo, con la rivoluzione borghese, il tema del parco urbano assunse connotati diversi. Tra ottocento e novecento uno dei luoghi centrali su cui si doveva strutturare la nuova città era il parco pubblico. Pensate all’Hyde Park (http://it.wikipedia.org/wiki/Hyde_Park) di Londra, modello per le città di fine ottocento e inizio novecento, ma anche al Tiergarten a Berlino, o al Theresienwiese di Monaco di Baviera – non solo luogo dell’Oktoberfest –, grandi parchi interni alla città, costruiti su modelli naturalistici, con laghi, boschi, prati, passeggiate, ma anche pieni di riferimenti al giardino all’italiana, con labirinti, aiuole fiorite, piantumazioni regolari, ecc. Isole verdi interne alle città dove la società borghese poteva girare in carrozza, a cavallo, o a piedi, dimenticando per un momento le ansie lavorative.
Anche nella città moderna, sia quella razionale e pianificata di Le Corbusier e degli architetti europei, sia quella in qualche modo sregolata e irrazionale del nord America (REM KOOLHAAS, Delirious New York: un manifesto retroattivo per Manhattan, edizione italiana a cura di Marco Biraghi, Electa, Milano, 2001), il tema del parco urbano e delle aree verdi urbane rimase certamente uno dei temi centrali su cui il progetto della città doveva strutturarsi. Penso al più grande parco urbano del mondo, il Central Park di NewYork (http://www.centralpark.com/), o ai parchi della grande Mosca moderna e socialista, pre-stalinista, o ai parchi di Helsinky, o comunque ai parchi delle città nord europee.







È evidente che si tratta di parchi grandissimi, enormi, ma il problema italiano, lombardo, milanese e nervianese, non è un problema dimensionale, è un problema di scala. A nessuno verrebbe in mente di costruire un Central Park a Garbatola o S.Ilario, o di pensare alla Ville Radieuse in scala nervianese, ma un buon amministratore e un buon cittadino dovrebbero porsi il problema della riqualificazione delle aree verdi, e dell’individuazione di nuovi parchi urbani, come un problema centrale per la città moderna e come un problema di architettura e pianificazione. E invece sempre più spesso si litiga su piccolissime aiuole, scivoli, altalene, castelli, vasche di sabbia, e ragionando nel micro si lascia che le nostre città, e il nostro territorio, vengano distrutti, devastati e martoriati da polemiche sterili e pianificazioni dissennate.

giovedì 29 novembre 2007

Progetti per Nerviano















All’interno dei Laboratori di Progettazione gli studenti sono tenuti a redigere un progetto, o più progetti, su vari casi studio collegati a differenti temi che ogni anno vengono loro sottoposti.
I lavori esposti a Nerviano dal 29 novembre al 3 dicembre presso il chiostro nuovo dell’ex Monastero degli Olivetani, sede del Municipio, formano parte del lavoro del Laboratorio di Progettazione Architettonica II coordinato dal prof. Antonio Esposito e da altri docenti della Facoltà di Architettura Civile di Milano – Elena Bonaria, Marco Banderali, Riccardo Nana, Danilo Annoscia, Andrea Perego e Fabio Pravettoni –. Questo gruppo di docenti e alcuni studenti hanno lavorato su due cittadine della provincia di Milano: Carnate e Nerviano. Nel Comune di Nerviano l’area scelta come caso studio è stata quella della Colorina: tra il vecchio borgo, l’Abbazia, il Mulino Lombardi, il Garden e l’area verde che si apre a nord di Nerviano.

Il Sempione e l’Olona sono gli assi lungo i quali si strutturava e si struttura ancora oggi Nerviano; in epoca moderna si è poi aggiunto il Canale Villoresi che proprio in questa area si affianca al Sempione e incrocia il fiume. Il denso incrocio di vie carrabili e di vie d’acqua, contribuisce a rendere l’area della Colorina un luogo speciale: una di quelle zone ai margini della città storica in cui meglio si evidenziano i conflitti tra la costruzione lenta e sedimentata della città tradizionale, e la costruzione sregolata e occasionale dell’edilizia recente.
I progetti che presentiamo si sono strutturati indagando sulle tensioni che studenti e docenti hanno saputo cogliere e tradurre in spunti ordinatori: il rapporto squilibrato del monumento con il suo intorno, la presenza incombente dell’edifico di abitazioni costruito alle spalle dell’abbazia, il rapporto tra il vecchio borgo e l’espansione del tessuto edilizio, i caratteri dell’area verde e il suo rapporto con l’acqua, la casualità delle trasformazioni edilizie del garden e del mulino. Progetti che in modo diverso, e con sensibilità architettoniche, e non solo, diverse sondano possibilità di nuovo diverse, possibilità di soluzione o di esasperazione dei conflitti della città. In ogni caso, nel loro insieme, provano a dialogare nell’ambito di un ricco dibattito intorno alle questioni architettoniche e del progetto, oscillante tra conservazione e sostituzione, tra modernità e tradizione, tra regola e dissacrazione. Un dibattito che si è appena aperto e che ora finalmente tenta di uscire dai confini accademici per cercare di contagiare la città, di coinvolgere altri luoghi e altri punti di vista.
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Articolo firmato Antonio Esposito e Fabio Pravettoni, pubblicato su "Nerviano Informa", Anno I, numero 1, dicembre 2007. pp. 18-19.

lunedì 26 novembre 2007

Pensiero e Azione


In questi giorni a Nerviano ho di nuovo assistito a un fenomeno strano, se volete molto italiano, certamente inquietante per un uomo che si ritiene di sinistra. Un’associazione politica, Nerviano Viva, schierata nel parlamentino cittadino con la destra, ha organizzato un evento straordinario, proprio perché inusuale e fuori dall’ordinario: una gara di motocross. Oggi sono stato tra loro. Si stava bene, ma bene davvero: gente infangata, rumore, moto che correvano nei campi resi pesanti dopo sei giorni di pioggia, macchine e camper parcheggiati ovunque, salamelle e vino rosso. Si stava bene.Non è la prima volta che organizzano qualcosa e non è la prima volta che organizzano delle belle cose. Concerti, serate, mostre, giornate di pulizia, gare in bicicletta, ora persino gare in moto. Tutto, o quasi tutto, con un attenzione sola: fare delle cose concrete, delle azioni, per la gente e tra la gente. Da qui una domanda sorge spontanea cosa vuol dire essere di destra, per loro, e cosa vuol dire essere di sinistra? Vuol dire da un lato idolatrare Berlusconi e quindi armarsi e schierarsi con lui, o dall’altro, rispettare il prof. Prodi e odiare il magnate televisivo quindi lottare perché questi non vinca? Cos’è di destra e cosa di sinistra? Se gli amici di Nerviano Viva non facessero alcuni articoli per partito preso contro la sinistra nervianese e non solo, o non facessero fumetti nei quali si ridicolizzano la falce e il martello, non si direbbe che sono di destra, o almeno si direbbe che sono di quella sinistra che chi ha letto Rosselli, Bobbio, ecc, ha in mente. E allora perché a destra?Ma poi un’altra, tremenda, domanda ti assale, e la questione si fa difficile, intricatissima, quasi paradossale. Perché la sinistra, soprattutto la sinistra italiana, ha così paura dell’azione? Da sempre, fin dal primo dopoguerra la sinistra togliattiana ha chiuso le porte a chi credeva che le cose si potevano certamente cambiare con il pensiero, ma soprattutto con l’azione. Vi sono moltissimi esempi nella storia del dopoguerra, dalla fine del partito d’Azione, alla ridicolizzazione dell’Ulivo azionista, dei movimenti, dei sindacati, alla grande paura che si percepisce tra i costituenti del nuovo Partito Democratico.E proprio ai costituenti del nuovo partito ricorderei le parole di Carlo Rosselli «far centro sul movimento operaio, tendente per legge fisiologica all’unità ed efficacissimo smorzatore degli urti interni, specie se di origine ideologica; e accompagnar quello che una costellazione di gruppi politici, di associazioni culturali, di organismi cooperativi. Concepire cioè il partito di domani con uno spirito ben più largo e generoso di quel che ieri non fosse»[1]. Infine, insieme al rinnovato plauso agli organizzatori per la spinta azionista che iniziative come quella di oggi hanno, suggerirei alla sinistra di non avere paura, di osare, di passare all’azione senza troppi vincoli, di struttura, di pensiero, o che ne so...

[1] CARLO ROSSELLI, Socialismo Liberale, a cura di John Rosselli, introduzione e saggi critici di Norberto Bobbio, Einaudi, Torino, 1997, p. 141.

giovedì 22 novembre 2007

Archeologia urbana: il caso dell'Oratorio dei Santi Biagio e Francesco a Garbatola















Il rapporto tra monumenti, rovine e vita quotidiana è una questione che sembra «improponibile oggi, anche se l’incuria e il degrado del nostro patrimonio monumentale sono sotto gli occhi di tutti» (G.Grassi) e, anche laddove si tenta di ripensare una città, sembra che sia un problema di secondo piano rispetto i grandi temi della mobilità metropolitana, dell’infrastrutturizzazione del territorio, e della macrourbanistica in generale.
Lo scorso anno, raccogliendo il gentile invito degli attuali proprietari, con l’aiuto di alcuni studenti ho iniziato a studiare la storia della vecchia chiesina dei Santi Biagio e Francesco in Garbatola e, incrociando dato reale, misurato, con descrizioni antiche e memorie d’archivio, ora si sta ricostruendo in modo preciso la storia di un manufatto dimenticato e insieme la storia di un antico borgo: la Cassina Garbatola.

Gli oratori erano piccole chiese, spesso adiacenti a ville signorili, o interne a grandi corti agricole, al servizio delle comunità di contadini che abitavano le cassine che strutturavano tutto il territorio a nord di Milano.
La prima testimonianza scritta relativa all’antico Oratorio di S.Biagio in Garbatola, risale al 1583 quando Monsignor Bernardino Taurisio, visitò per conto di Carlo Borromeo la Pieve di Nerviano. Prima il Taurisio, poi San Carlo, quindi Federico Borromeo ordinarono la costruzione di un nuovo Oratorio, o comunque la risistemazione di quello vecchio secondo i nuovi canoni controriformisti.
Nel libro che raccoglie le osservazioni relative alla visita pastorale del 15 settembre 1621, condotta dal Sacerdote Giacomo Minunzio, delegato di Federico Borromeo, per la prima volta l’Oratorio della Cassina Garbatola appare dedicato ai santi Biagio, Francesco e Carlo. Non sappiamo se la chiesina descritta fu costruita ex novo o, più verosimilmente, stante le ristrettezze economiche del borgo, sia il risultato di consistenti lavori di ristrutturazione e ampliamento del vecchio oratorio; è certo tuttavia che l’oratorio di cui si possono ancora oggi vedere i resti nella piazza garbatolese fu costruito tra il 1610 e il 1620.
Probabilmente più ampio del precedente, il nuovo oratorio dei Santi Biagio e Francesco – e inizialmente Carlo – venne costruito, si legge negli atti della visita, per volere di Carlo Borromeo dal nobile Cesare Salvioni – [...] In hac Ecclesia, quae impensis Domino Caesaris Salvioni a fondamentis ferme’ extructa fuit in solo tamen ex ordinatione Sancti Caroli –.
L’edificio misurava ventotto cubiti in lunghezza e undici in larghezza e in altezza – circa 12 metri per 5, per 5 di altezza -. Dalle visite pastorali del XVIII secolo si apprende che l’edificio era costituito da tre locali, quello più grande costituiva la parte dedicata ai fedeli, quindi attraversata la balaustra, sotto un grande arco laterizio, si poteva accedere alla cappella dell’altare maggiore, più piccola e rialzata di un gradino. Il soffitto era a cassettoni e il pavimento in laterizio. La sacrestia era in un primo momento a sud, confinante con la corte della casa da nobile, poi fu spostata a nord, lungo l’attuale via Isonzo. La facciata dell’oratorio era semplice, completamente intonacata e tinteggiata, senza cordoli, lesene, basamenti e senza le prescritte immagini dei Santi a cui l’oratorio stesso era dedicato – [...] In frontispicio huis Oratorij alioquin ad norma edificato non fuerunt depictae Imagines Sanctorum titularium –. Alla chiesina si accedeva per un portone in legno a due battenti, dopo avere attraversato il piccolo cimitero del borgo.

L’oratorio dei Santi Biagio e Francesco fu utilizzato dalla comunità della Garbatola fino al 1905, anno di ultimazione dei lavori dell’attuale parrocchiale dedicata ai Santi Francesco e Sebastiano.
Oggi dell’antica chiesina rimangono la grande facciata sulla piazza don Paolo Musazzi, a fianco del bar Leva – ex trattoria San Francesco –, la facciata meridionale, sull’ex corte nobile, e i resti di quella settentrionale, demolita nel primo dopoguerra. È evidente quindi che si tratta di un caso in cui il netto prevalere del valore storico della rovina, del suo valore di testimonianza sul piano storico-architettonico rispetto quello artistico, cioè sul valore del manufatto visto come opera d’arte, introduce la questione del progetto. Progetto che dovrebbe quasi demandare all’edificio antico le risposte che noi moderni non siamo più in grado di dare, per far si che il vecchio possa diventare «una parte inseparabile del nuovo». Così la presenza nostalgica e inutile della rovina antica, cioè di un edificio reale nel centro di un antico borgo, di colpo, potrebbe e dovrebbe diventare – per esempio nei futuri progetti sull’edificio e sulla piazza – la pietra di paragone per un nuovo progetto sul manufatto e sulla città.

Articolo pubblicato su "Nerviano Informa".
Anno I, numero 0, ottobre 2007.
Presto sarà pubblicato un libro sull'ex Oratorio dei Santi Biagio e Francesco e sugli Oratori e le Cascine.

domenica 18 novembre 2007

Collegio Cavalleri. Progetto di ristrutturazione

Tra le due guerre mondiali, durante il movimento moderno, si stipulò una sorta di accordo segreto tra architetti e restauratori: si credeva che le trasformazioni introdotte in un edificio dovevano essere sempre manifestate. Da un lato i restauratori iniziarono a sostenere le ragioni della distinzione tra antico e moderno, dall’altro gli architetti si sentivano liberi di poter sperimentare i dettami della modernità, non solo nei vasti spazi suburbani ma anche nei centri storici. Dopo le ferite e le distruzioni belliche inferte alle città tra il ‘40 e il ‘45, gli architetti italiani, in particolare E.N. Rogers, si accorsero che non si potevano cancellare con leggerezza la memoria del passato e i segni della storia. Le relazioni tra vecchio e nuovo divennero più complesse e difficili. Oggi si è giunti ad una radicalizzazione delle posizioni: architetti e conservatori hanno estremizzato il loro pensiero, e spesso, forse per scarsa conoscenza del processo compositivo, si considera legittimo intervenire su di un edificio costruito recentemente, piuttosto che su un manufatto antico, anche se in realtà le difficoltà sono quasi sempre le stesse, difficoltà legate alla natura dell’oggetto, alla sua forma, alle sue proporzioni e alla sua composizione.

La storia dell’architettura è ricca di casi in cui parti di città, o parti di edifici, si trasformano. Sono casi emblematici la Cattedrale di Siracusa, trasformata da tempio greco in basilica Cristiana, o il Duomo e le antiche basiliche ambrosiane, o il broletto di Milano, cui nei secoli furono aggiunti un piano intero e uno scalone di accesso. Le trasformazioni, gli adattamenti, gli ampliamenti antichi possono essere quindi considerati veri e propri manuali di architettura messi in opera, dove le vecchie strutture vengono utilizzate sia come “maestro” per la giusta direzione delle scelte nel lavoro sia come materiale vero e proprio del progetto.
È quindi possibile e lecito trasformare, ampliare, sopralzare, un edificio storico? Credo di si e la bontà o meno di ogni operazione, di ogni trasformazione, come di ogni nuovo progetto, sta nella bontà o meno del progetto stesso. Come si fa a priori a dire che un edificio non si puo’ sopralzare, o che a un edificio non si possono costruire lucernari? Nella storia dell’architettura ci sono pessimi e bellissimi lucernari, pessimi e bellissimi ampliamenti, pessime e bellissime trasformazioni.

Troppo spesso l’atteggiamento di progettisti e costruttori nei nostri paesi si sta attestando su posizioni folcloristiche e vernacolari e contro questo atteggiamento dobbiamo assolutamente e decisamente combattere, più che sulla possibilità o meno di ampliare una casa, innalzare un palazzo, aprire una finestra, chiudere una porta. Tetti, tettucci e sporti di gronda, archi colonne e balconi, becchi, balconcini e barbacani stanno avvilendo l’architettura italiana, più di ogni altra mala legge o cattivo regolamento.
E quindi non penso che sia deprecabile per partito preso il volere ampliare un palazzo storico, penso che sia deprecabile un atteggiamento troppo vernacolare e folcloristico. Quindi, mentre credo sia giusto rendere usufruibile un palazzo antico, non credo sia giusto farlo con un atteggiamento troppo mimetico, quasi turistico.

Il progetto di ristrutturazione del Collegio Cavalleri di Parabiago ha una duplice anima, un duplice atteggiamento che lo rende incomprensibile: un atteggiamento troppo mimetico, quasi vernacolare, nel disegno dei fronti, con le nuove finestre su piazza Maggiolini circondate da cornici importantissime, che richiamano troppo letteralmente quelle antiche dei finestroni sottostanti, o con le grandi lesene, i cornicioni, le cornici neorinascimentali del fronte interno; e un atteggiamento troppo spregiudicato all’interno, con la ferma volontà di rinnegare la distribuzione antica, attraverso la demolizione quasi completa delle vecchie e potenti strutture del palazzo, sostituite da moderni muretti in laterizio, pilastrini in cemento armato che cadono nel mezzo di piccoli soggiorni e una distribuzione tipicamente residenziale.

Per questo giudichiamo negativamente il progetto di ristrutturazione del Collegio Cavalleri di Parabiago e invitiamo a rivederlo, con più consapevolezza, e con un duplice, nuovo, atteggiamento: maggiore modernità e distacco da un linguaggio tradizionale e vernacolare all’esterno, e più rispetto, soprattutto il rispetto delle strutture antiche all’interno.

Scritto pubblico per la "Commissione Paesaggio e Territorio"
del Comune di Parabiago (Milano).
Oggetto: ristrutturazione Ex Colleggio Cavalleri

giovedì 11 ottobre 2007

Pensiero politico di un caro amico

Spendersi per una ragione politica (costituzione del PD), in lista minoritaria (lista che sostiene la candidatura di Rosy Bindy come segretario) e per giunta alla 7a posizione, è da incoscente e sprovveduto. E´ questo che mi sento dire da molte persone, anche tra i miei amici più cari.
Incosciente del forte vento dell´antipolitica che si sta alzando potente nel nostro paese che rischia di licenziare come disonesto anche chi non lo è, e sprovveduto perchè il meccanismo di queste elezioni, con il sistema delle liste bloccate e senza preferenza, predefinisce già gli eletti. In pratica, mi dicono, stai facendo un autogol o meglio ancora uno sputo controvento. Tutto vero ma...
Ma la mia idea della politica, considera come azione buona e positiva anche la semplice testimonianza, senza alcun bisogno di pretendere un vantaggio o un privilegio. E´ partendo da questo punto di vista che tale comportamento diventa coraggioso, responsabile e costruttivo, ma sopratutto coerente con il desiderio di chi si sente e vuole essere nello stesso istante, persona e comunità.
Da bambino, di ritorno dalla scuola, nelle fredde e ventose giornate autunnali, ci si metteva in fila e a turno si iniziava a sputare controvento. Le regole erano semplici: partenza allineata dei corpi con i piedi ben piantati per terra; sputo vigoroso capace di atterrare il più lontano dalle proprie spalle. Inutile dire che per vincere bisognava sputare il più in alto possibile evitando la direzione "dritto davanti agli occhi" altrimenti le conseguenze sarebbero state poco simpatiche. Così come ancora più antipaticoera lo sputo "altezza occhi ma spostato a destra o a sinistra". Antipatico ovviamente solo per il destinatario di tale carognesco gesto, mentre per gli altri un giubileo francescano.Insomma, per sputare controvento occorre avere una buona dose di coraggio, predisposizione fiduciosa e ottimistica all' imprevisto, strategia di gioco e chiarezza degli obiettivi da raggiungere. Quando iniziai il mio viaggio verso il Partito Democratico 12 anni or sono con la costituzione del comitato di Nerviano (MI) "Con Prodi per l'Italia che vogliamo" ero carico di emozioni e di speranze e più che convinto della bontà di quel progetto che rappresentava la sintesi perfetta della mia vita. I compagni di viaggio erano amici veri, le regole più che condivise, il destinatario di qualche sputo inclinato ben definito e la fiducia positiva del futuro a mille.
Di quella voglia matta oggi si conta ben poco, ma qualcosa di importante è rimasto, qualcosa che mi sembra importante debba vivere in questo nuovo partito.

Al banchetto di Rho (MI) del V-day di Grillo, sono rimasto in coda per 45 minuti: di Grillo poco mi importa ma sinceramente l'iniziativa da lui promossa mi è sembrata utile e necessaria. Qualsiasi persona di buon senso riuscirebbe a comprenderne la ragionevolezza della raccolta di firme che ricordo per titoli:
a) no ai parlamentari condannati
b) limite di due legislature per i parlamentari eletti
c) elezione diretta dei cittadini in Parlamento con il meccanismo della preferenza diretta.
Dunque, quale scandalo? E sopratutto dov´è il qualunquismo e l´antipolitica in tuttto ciò?Molti sindaci come molti altri attori della politica, dai componenti delle cariche più alte delle nostre Istituzioni in giù fino appunto a quelle più semplici negli enti locali, statali e parastatali, mi sembra si stiano spostando dalla funzione di rapprensentanza dei cittadini alla rappresentazione di se stessi. Un male vergognoso che porta a fare non ciò di cui la comunità ha bisogno ma solo ciò di cui essi stessi hanno bisogno, per la propria sopravvivenza. Un atteggiamento del tipo "volete libero Barabba o Gesù?" ditemi quello che volete ed io lo farò, tanto ci sarà sempre un lavavetri di turno a salvarmi.
La laicità dello stato nelle politiche della scuola come della famiglia e , nell´economia come nella politica va difesa e rafforzata.
Battersi su questi temi così come battersi per dare maggior spazio e voce alle donne, e più in generale battersi contro tutti i privilegi presenti nella nostra società, credo siano i prossimi nuovi e urgenti orizzonti della politica.
Ma non è facile su questi temi partecipare, discutere, testimoniare; metterci insomma la propria faccia. Dentro o fuori un partito, per una o per l´altra lista. Ma è urgente e necessario farlo. Ma in tanti e tutti insieme.

Perchè sputare controvento, quando serve, non è mai un gioco da ragazzi.

Flavio Magni.

domenica 30 settembre 2007

Un pensiero per il Parco del Roccolo 2

(continua)
Il secondo giorno entriamo da Villapia.
Lascio la macchina nei pressi del canale Villoresi, in uno dei suoi punti più belli, dove dal Canale si dirama il secondario che porta acqua a Vanzago, Pregnana, Cornaredo, Bareggio. Proseguiamo in bicicletta per qualche chilometro lungo l’alzaia del Villoresi poi, lungo uno scolmatore, entriamo in territorio casorezzese, nel cuore del Roccolo.
Ogni tanto compaiono cartelli, il più delle volte ruggini o divelti, ogni tanto si incontrano persone a cavallo, in bicicletta, altri ancora che corrono e il mio amico Maurizio, presidente dell’atletica Casorezzo, dice che moltissimi podisti ogni giorno si allenano lungo quei sentieri e per questo gli piacerebbe che si costruisse un percorso guidato e segnalato.

Certo il percorso segnalato sarebbe un primo passo, ma percorrendo da dentro il Parco del Roccolo ci si accorge che qualcosa non funziona, o non ha funzionato negli anni. Non sono un esperto di pianificazione territoriale, sono un progettista, ma ci vuole poco a capire che qualcosa non va. Solo pochi comuni sentono loro propria la questione del parco? solo pochi comuni stanziano soldi per il parco? cattiva gestione – non tanto per i soldi, che nelle amministrazioni mancano sempre, ma nella programmazione o nella capacità progettuale, penso... –? Non so. Il fatto è che nella pancia del parco il Parco rimane l’unico grande assente.
Progettare un parco, mi dice un’amica, esperta nella pianificazione e dei parchi, è un lavoro da architetto, è come progettare una città, bisogna capire quali sono i percorsi principali, quali quelli secondari, capire dove fare i punti di sosta, i servizi, anche quelli igienici, dove realizzare punti di ristoro. Ricordo che qualche anno fa su un forum nervianese lanciammo l’idea di progettare dei ciringuiti da sistemare sul territorio e anche nel parco: cioè dei piccoli bar, estivi probabilmente, e smontabili l’inverno, magari da far gestire a giovani disoccupati, piccoli punti di aggregazione dove potersi bere un birra o una granita, durante le afose giornate estive. Bisogna poi studiare una segnaletica comune per tutto il parco, progettare futuri ampliamenti del parco stesso– penso all’area nervianese a nord del sempione, tra le frazioni del Comune –, promuovere realmente il parco nelle scuole e sul territorio.

Insomma pensare un parco è come pensare una città, con le sue vie, la segnaletica, i suoi punti di aggregazione, le piazze, e, perché no, i monumenti. Amministrare un parco è come amministrare una città, e quando i soldi scarseggiano e la gente sembra presa da altri mille pensieri, è il momento di inventarsi qualcosa e di organizzare un dibattito serio per capire come salvare un parco che lentamente sta morendo.

martedì 25 settembre 2007

Un pensiero per il Parco del Roccolo 2

Il mio primo approccio con la questione “Parco del Roccolo” risale ai tempi delle scuole superiori, quando con gli studenti dell’istituto Maggiolini di Parabiago, organizzai una raccolta di firme contro il progetto per un inceneritore nei campi tra Nerviano, Arluno, Parabiago, Casorezzo, ecc – o almeno all’epoca capimmo quello –. Anche per tutelare definitivamente quelle aree dalla speculazione edilizia e da progetti scellerati sorse il Parco del Roccolo.
Di recente, due anni fa, mi è capitato di ritornare sulla questione del Roccolo, quando un amico ingegnere, Maurizio, un bravo ingegnere, mi chiese se avevo voglia di aiutarlo in un progetto per alcuni cartelli segnaletici da posizionarsi nel parco. Fu così che iniziammo a studiare il parco da dentro, in bicicletta, per due giorni, con macchina fotografica, tra campi e canali, tra boschi, marcite e vecchie cascine.
Ma è proprio nella pancia del parco stesso che ci accorgemmo che c’era un grande assente: il Parco. C’erano i fagiani, i conigli selvatici, americani, come la robinia e l’ambrosia, che stanno colonizzando queste terre scacciando le lepri autoctone – sempre il solito vizio, questi americani, o questi inglesi? dove arrivano colonizzano, eheheh –, c’erano persone a cavallo o in bicicletta, a piedi o in mountain bike, c’erano i contadini che lavorano i campi e sistemano i canali, ma c’era anche un grande assente il PARCO.

Il Parco con i suoi cartelli, con le sue strutture ecosostenibili, ed ecocompatibili, il Parco con i suoi percorsi, le sue piazze, i suoi punti di sosta, sembra un progetto abbandonato da anni. Ogni tanto si incontra un cartello, ogni tanto si incontra un’indicazione, che poi dopo qualche centinaio di metri si perde, perché quella dopo è stata brutalmente divelta; quasi mai, tranne ad Arluno, si incontrano punti di sosta con legende e spiegazioni, con carte topografiche o tutto quello che si trova normalmente in un Parco.

Entrare nel Roccolo da Nerviano è poi un’impresa ardua – ma lo stesso vale per Parabiago, Villastanza, ecc –. Da dove si parte? Non esistono indicazioni, forse non sono mai esistite.
Partiamo il primo giorno da Nerviano. Frazione Cantone. Un vecchio borgo rurale fino qualche anno fa semidimenticato ma “vero”, con la sua struttura agricola, con i suoi due bar, uno da un lato dell’unica strada, uno dall’altro. Poi sul finire degli anni ottanta è arrivata la speculazione edilizia e Cantone è stata assediata dai palazzi fuori scala, e il borgo è stato brutalmente unito a Nerviano.
Da qualche anno il sottopasso della ferrovia di Stato che divide in due il territorio nervianese è stato chiuso e quindi come arrivare nel parco – che ovviamente sta dall’altra parte della ferrovia –?
Per una stradina sterrata, una traversa dell’unica strada di Cantone, si arriva a un sottopasso fantasma, a uso agricolo. Discesa ripida e altrettanto ripida risalita, e subito bivio. Dove andare? Non un indicazione.
Un giorno provi a destra e ti ritrovi, dopo varie peripezie, sulla strada provinciale che collega Rho, Pogliano, Parabigo, Busto Garolfo; un altro giorno vai a sinistra e dopo avere costeggiato una porcilaia ti ritrovi nuovamente sulla provinciale. Passi la provinciale e ti perdi. Le prossime indicazioni le trovi a tra Arluno, località Poglianasca, e a Villapia, ma niente di preciso. Il più delle volte indicano un percorso che non si capisce dove inizia e dove porta; quasi sempre le indicazioni stesse sono griffate da questa o quella società di atletica, di ciclismo, da questo o quel gruppo podistico.
(continua)

lunedì 17 settembre 2007

Verso un confronto: la costruzione della pianura

Solo guardando la pianura dall’alto, o astraendosi e leggendola mediante una carta, ci si può accorgere del rapporto tra gli insediamenti della pianura e quella grande opera di ingegneria che è la pianura stessa, fatta di fiumi e laghi ma soprattutto di campi riquadrati dall’uomo, di canali artificiali, di villaggi. Solo attraverso una carta topografica si può capire come la pianura sia stata disegnata e strutturata secondo delle regole, e come molti edifici, o villaggi, che si sono costruiti nella pianura cerchino di rapportarsi tra loro proprio attraverso quelle regole.
La pianura è una sorta di grande macchina, di grande opera di ingegneria che annulla le singolarità e le particolarità. Essa è costruita pensata e realizzata per riorganizzare la vita dell’uomo e per realizzarne i desideri e i bisogni: i romani la disegnarono, la coltivarono e la trasformarono secondo la regola della suddivisione in centuriae, modificandone completamente l’assetto. Dall’area emiliana sino al milanese, dove centuriae e corsi naturali dei fiumi incrociavano le vie di comunicazione più importanti, la via Emilia, la Postumia, il Sempione, si formarono punti di sosta, piccoli insediamenti, che nel tempo divennero, grangie, castellazzi, cascinali, villaggi.

Con i suoi campi, i canali e le sue corti, quelle rurali e quelle urbane, le sue fabbriche, i suoi centri commerciali, la pianura può essere intesa quindi come un’opera dell’uomo. È per questo che approcciandosi al problema di un progetto nella pianura milanese, nel nostro territorio, non si può prescindere dallo studio della sua storia, della storia delle sue corti e da quel ripetersi ostinato di tipologie, schemi, misure, che sono da un lato legate alla cultura materica e insieme sono direttamente legate a un modello architettonico ben preciso e studiato nelle sue forme e nelle sue possibilità. L’architettura rurale non è così solo architettura povera, frutto dell’esperienza dell’uomo, ma è ripetizione di un modello architettonico, di uno schema probabilmente elaborato nella Milano sforzesca di Leonardo, Bramante e del Moro, e poi affinato tra il Settecento e l’Ottocento. La semplicità e il rigore delle nostre corti e delle nostre pianure è il risultato di un lungo travaglio, e di un instancabile ripetersi delle medesime forme nel tempo.

A fronte delle mille forme con cui oggi l’Architettura cerca di mostrarsi, nelle nuove costruzioni come nei progetti di arredo urbano, che insistono sempre con crescente e irresponsabile retorica sulla rottura e sulla discontinuità delle forme del passato, credo che progettisti, amministratori e istituzioni dovrebbero confrontarti, e insieme provare a fare uno sforzo comune perché i progetti possano ripartire dalla semplicità delle forme della storia, della tipoligia e degli schemi che compongono e strutturano i nostri territori, nel loro intenso e complesso rapporto con il passato. Come confrontarsi lo devono diregli amministratori di enti locali e comuni; certo che i "classici" spazi della politica vanno ripensati, resi più accessibili e appetibili, visto che non hanno prodotto quasi mai, negli ultimi cinquant'anni, soprattutto in Italia, un confronto sereno, aperto e soprattutto proficuo.

martedì 11 settembre 2007

Un pensiero per il Parco del Roccolo

Un giorno passeggiando per Nerviano, cercando un’area interessante per un lavoro universitario, l’amico e professore Antonio Esposito mi chiese qual’è il prodotto tipico dell’area nervianese. Prontamente risposi: gli affettati di Auchan, i piatti caldi di Esselunga, gli scatolati a basso costo di Lidl. Dopo gli anni delle giunte creative e della speculazione edilizia selvaggia credo sia giunto il momento, per un’area che fu una delle spine dorsali dell’economia del Ducato di Milano prima e del nuovo stato unitario poi, di fermarsi e riflettere.

Le trasformazioni che a partire dalla fine dell’ottocento hanno interessato i territori tra Milano e Varese sono state rapidissime e radicali, spesso insensate. Da area a vocazione agricola, ad area tessile per eccellenza – la Manchester d’Italia di fine ottocento e inizio novecento –, ad area industriale, tra le altre l’Alfa Romeo e la raffineria di Rho-Pero, poi post industriale, ora i giganteschi centri logistici e i centri commerciali.
Ha ancora senso parlare quindi di prodotto tipico in un’area del genere? Forse no.
Certamente può avere senso parlare di caratterizzazione di un territorio, di dare, o di ridare, un carattere a questa zona. Potrebbe essere un occasione, certo a essere onesti, per chi conosce un poco la vicenda e per chi ha mai provato ad addentrarsi al suo interno, sarebbe meglio dire un occasione “poteva essere un occasione” il parco del Roccolo (http://www.parcodelroccolo.it/) – un parco nato per frenare speculazioni edilizie e politiche su una delle poche aree ancora verdi tra Sempione, Olona, Villoresi –. Mala gestione, mala amministrazione, scarsa volontà da parte dei politici di provare a capire come gestire, e soprattutto cosa farsene del parco, hanno portato a una situazione imbarazzante e ormai, credo, al limite del ridicolo: il parco c’è, ma non c’è. Cosa fare quindi?

Uno degli interessi principali della nobiltà milanese a partire dal quattrocento, durante gli anni della dinastia sforzesca, era costituito dalla vinificazione e soprattutto dal controllo della vendemmia, tanto che il periodo preferito per la villeggiatura nelle campagne era per lo più l’autunno. I terreni delle zone tra il Naviglio Grande e le Groane, a nord di Milano, terreni sostanzialmente asciutti, dai censimenti catastali settecenteschi appaiono coltivati intensamente a vite, con grani e foraggi, alternati a filari di vite.
Fu durante il periodo di Ludovico il Moro che si insediò nel territorio a nord di Milano il tipo della “cascina villa” – che con le sue corti nobili collegate direttamente a quelle agricole, con i suoi portici, i fienili, le cantine, i granai, le stalle, le cascine, le colombaje, rappresenta un tipo architettonico che può definirsi tipicamente milanese – e che si sviluppò la vocazione vinicola delle zone bagnate dall’Olona. La cascina villa era il centro della vendemmia.
Oggi la vite, dopo i problemi creati dalla comparsa di due parassiti, l’oidio e della fillossera, e dopo l’industrializzazione novecentesca, è totalmente scomparsa dalla campagna milanese, ma ancora durante tutto il settecento era diffusissima.
Ora, ripensando alla domanda dell’amico Antonio, su quale prodotto potrebbe essere considerato prodotto tipico, su cosa si potrebbe, in un futuro, puntare per rilanciare e ricaratterizzare una zona che sembra avere perso la propria anima, beh forse una risposta la inizio a intravedere... È così pazzesco pensare a un progetto di reintroduzione della vite e della vinificazione nella nostra zona – in realtà so che, a fatica, il parco del Roccolo ci sta già provando –?

lunedì 10 settembre 2007

Un pensiero tra rovina e città moderna

Il rapporto tra monumenti, rovine e vita quotidiana è una questione che sembra «improponibile oggi, anche se l’incuria e il degrado del nostro patrimonio monumentale sono sotto gli occhi di tutti»[1]. Il moltiplicarsi degli scavi e delle scoperte archeologiche, e la crescente importanza della dimensione sotterranea della città, hanno prodotto un sistema diffuso di cicatrici e di ferite: irrisolti spazi di risulta della città moderna, a testimoniare il grave dissidio tra sistemazione architettonica, esigenze di scientificità della conservazione e proseguimento delle campagne di scavo.
Dove proseguire gli scavi? È possibile intendere lo scavo non solo come strumento per cercare nelle viscere dei luoghi la diretta testimonianza di un passato ormai sepolto, ma anche come momento evocativo della città antica e fondativo di quella contemporanea? Esiste infine un rapporto diretto tra gli edifici e il passato che i luoghi in cui sorgono nascondono: «quel passato nel quale inevitabilmente ci imbattiamo quando inizia il primo lavoro richiesto dalla costruzione, cioè lo scavo che precede il processo di fondazione»[2]?
L’instaurarsi di una logica dell’emergenza in occasione di qualsiasi ritrovamento antico, ha finito col disseminare la città contemporanea di un gran numero di ruderi e strutture informi di difficile identificazione, spesso circoscritti da recinzioni e sbarramenti. Riallacciare il rapporto tra composizione architettonica e archeologia urbana, non significa limitarsi «a perseguire compiti come quelli della protezione e dell’ambientamento dei ruderi, ma, al contrario, farsi protagonisti di una “azione sovversiva”. Smontando le apparenti coerenze, isolando i singoli frammenti e riconoscendone l’appartenenza alle diverse sezioni della città stratificata il progetto può identificare le cose e i diversi sistemi formali a cui fanno riferimento»[3].
Cosa intendere quindi per rovina? Rovina può essere un piccolo oratorio abbandonato e trasformato, o una corte assediata da palazzi e villette, rovina è il sedime della strada antica che persiste alle trasformazioni della città; non necessariamente per rovina dobbiamo intendere il grande manufatto classico caduto, appunto, in rovina. Da qui deriva la ferma volontà di riscoprire il senso del passato nella città contemporanea: quel passato che ha perso il suo carattere originario e fondativo, ma che è custodito all’interno della città, quel passato dal quale imparare per costruire la città nuova.

[1] Giorgio Grassi, Teatro Romano di Brescia. Progetto di restituzione e riabilitazione, Documenti di Architettura, Electa, Milano, 2003, p. 7.
[2] Rafael Moneo, La solitudine degli edifici e altri scritti, Vol. II, Sugli architetti e il loro lavoro, Umberto Allemandi & C., Torino, 2004, p. 95.
[3] Angelo Torricelli, Memoria e immanenza dell’antico nel progetto urbano, in Aa.Vv., Archeologia urbana e progetto di architettura, seminario di studi tenutosi a Roma, dal 1 al 2 dicembre 2000, a cura di Maria Margarita Segarra Lagunes, Gangemi Editore, Roma, 2002, pp. 217-236, la citazione da p. 218.

domenica 9 settembre 2007

Cosa fare oggi?

Severino in Tecnica e Architettura sostiene, credo a ragione, che oggi ci troviamo immersi nella civiltà della tecnica: la gente ha rispetto per la tecnica, nessuno si pone il problema di sostituire un luminare della tecnica, perché ognuno sa di non sapere la tecnica dell’altro. Mi riferisco a una persona comune che difficilmente si sostituirebbe a un ingegnere per costruire ponti, a un fisico per studiare la materia, se vogliamo anche a un professore di italiano, proprio perché non conoscerebbe la sua tecnica. Pensate invece alla religione: tutti pensano di poter dire la loro, senza studiarla, meditarla, approfondirla (io per primo mi sento in debito verso questi studi), perché sembra una materia non tecnica. Ma pensate anche alle pratiche d’arte: ci si ferma e ciascuno riconosce i propri limiti, davanti alla tecnica del musicista, allo spartito, alla tecnica del pittore: dove invece è composizione, è pensiero e filosofia, allora non ci si ferma. È un atteggiamento tipico della post-modernità. Pensate all'architettura: sembra che da qualche decennio le questioni architettonica e progettuale siano divenute di dominio pubblico, nel senso che tutti pensano di poterle controllare.
Cosa fare quindi? Cosa fare in una città assediata dalle villette gialle con gli archi e i portici, o dai centri commerciali? Cosa fare in una città dove troppo pochi, tre o quattro al massimo, gestiscono il 95% dei progetti, quindi la trasformazione della città stessa? Ci fu un momento, all’inizio del XX, secolo in cui filosofi, scultori, pittori e architetti conducevano programmi via radio per far capire cosa si intendeva per composizione e cos’era la modernità. Si potrebbe quindi pensare quindi di organizzare incontri pubblici, concorsi, mostre, o di costruire e divulgare publicazioni, articoli sul giornale cittadino (dove finalmente si parli anche di modernità e non solo di storia medioevale). Si potrebbe poi anche cercare di alzare il livello della "produzione architettonica" proprio attraverso interventi comunali “alti”, penso a restauri colti (come è stato fatto per l’ex convento degli Olivetani a Nerviano), a scuole moderne (ma già una o due occasioni sono andate perdute), a interventi su piazze fatte con sapienza, a lavori assegnati per concorso, di idee o di progettazione, ...

Tra antico e moderno, tra rovina e progetto

Lukacs in Breve storia della letteratura tedesca osserva: «[…] il fascismo hitleriano si è abbattuto sulla cultura tedesca come una tempesta annientatrice. Che cosa ne sia stato distrutto, fino a che punto lo sviluppo culturale della Germania sia stato ricacciato indietro da Hitler, si potrà valutare in modo completo solo quando ricomincerà […] la ricostruzione spirituale, morale e culturale della Germania». (György Lukács). Fino a che punto anche il nostro fascismo può avere cancellato la nostra memoria?
Ricordo che mia nonna non conosceva nulla dell’antica chiesina, non ricordava nulla del vecchio borgo. Ricordava benissimo invece la ginnastica fattale praticare da “giovane italiana”, gli inni, le sfilate, la guerra, la fame.

Il caso dell’antico Oratorio de santi Biagio e Francesco non è un caso importantissimo, dalle nobili origini, e non vuole porre Garbatola al centro di chissà quale vicenda, è solo un caso studio, un caso emblematico di un modo diverso di approcciare la storia e di ricostruire la memoria. Dopo anni in cui si è cercato di ricostruire una storia fatta di «[…] damigelle e di frusciare di merletti […]», o di nomi altisonanti, come l’imperatore Nerva o l’imperatore Federico I, è ora il momento di provare a ricostruire una storia reale, non una storia che serva a ricordare i bei tempi passati, ma a risistemare le cose nella nostra memoria collettiva.
Il netto prevalere del valore storico della rovina, del suo valore di testimonianza sul piano storico-architettonico, rispetto quello artistico, cioè sul valore del manufatto visto come opera d’arte ci aiuta nel costruire una storia realista e insieme introduce la questione del progetto: la rovina intesa cioè come punto di partenza e come punto di arrivo. E così solo pensando al valore progettuale della rovina che potremo intendere la ricchezza che in realtà essa custodisce.
La presenza della rovina antica, cioè di un edificio reale, o di ciò che ne resta, di colpo può diventare la pietra di paragone per un nuovo progetto sul manufatto e sulla città. Progetto che può quasi demandare all’edificio antico le risposte che noi moderni non siamo più in grado di, senza per questo dover fingere a tutti i costi che queste risposte gli appartengono. «E così il vecchio diventa una parte inseparabile del nuovo: complementare, proprio per il suo essere una versione sperimentata della virtualità espressa dalla forma imperfetta del nuovo» (Giorgio Grassi).

sabato 8 settembre 2007

Un pensiero per Nerviano

Qual’è l’esempio più significativo della cultura moderna, del novecento, o se vogliamo del periodo che inizia con la fine della prima guerra, a Nerviano? Probabilmente qualcuno direbbe la torre, altri, dagli occhi più attenti, direbbero le manifatture (ad esempio la pur devastata Bernocchi, o l’ex Unione Manifatture, di cui si è già detto), altri ancora, i più sensibili, alcuni palazzi in zona “Gescal” costruiti sulla base di un ben più famoso edificio di I. Gardella. In ogni caso, a differenza di altri paesi, lo sforzo della ricerca risulterebbe notevole, quasi impossibile. Le poche ville razionaliste sono state devastate da interventi di ampliamento e di "recupero dei sottotetti". Si può quindi affermare che a fronte di edifici antichi di pregevole fattura, ad esempio le chiese rinascimentali e borromaiche, il convento, le ville settecentesche, ecc, non si trovano esempi significativi della cultura moderna e soprattutto contemporanea. A questo punto forse è utile chiarire, che per moderno, banalmente, si può intendere quella tendenza semplificatrice dell’arte figurativa tradizionale, ma non solo (pensate agli usi, ai costumi, i vestiti), che si sviluppò nell’Austria di inizio ‘900, per cui si passò da “forme sfarzose” e “colorate”, a linee “semplici ed essenziali” (sono fondamentali gli scritti di A.Loos e K.Kraus). Forse proprio la mancanza di esempi significativi (...non vale la pochezza dell’ex Municipio, se, considerati i dati di Parini, effettivamente fu costruito in anni in cui si formavano e già operavano maestri del calibro di Terragni, Gardella, Mollino, oppure Le Corbusier, Taut, Mies, ecc) della cultura moderna in Nerviano potrebbe aprire un serio tavolo di dibattito e confronto. Sembra quasi che da un lato Nerviano conservi, giustamente, il suo spirito nobile e antico, mentre dall’altro sembra che si sia chiusa a riccio su quei ricordi, non riuscendo, o non volendo, da questi ripartire.
Nerviano come specchio della situazione italiana generale, dove oggi, a fronte di un passato glorioso, si fa davvero poco, pochissimo, quasi nulla. Viviamo in una situazione difficile e imbarazzante, come di sdoppiamento: gli italiani sono come moderni in una realtà (solo) antica. Cosa lasceremo oltre ai piani regolatori che hanno distrutto un paese, redatti da politici incompetenti, forse le villette con gli archetti e i finti capitelli, o forse l’edilizia speculativa degli immobiliaristi?