venerdì 31 ottobre 2008

Studenti ricerca e ricercatori

I ragazzi sono preoccupati per l’avvenire e temono di essere le uniche vittime dei cambiamenti che si stanno preparando per loro e hanno perfettamente ragione.

Tempo fa, ormai quasi quindici anni fa, fui anch'io, leader degli studenti di un grande istituto superiore della zona in cui vivo, e devo dire che anche quindici anni fa si partecipava, tra ottobre e novembre, a numerose manifestazioni delle quali poco si capiva, anche quindici anni fa si portavano duemila ragazzi a Milano, si correva dentro la metropolitana, si saltavano i cancelli, si manifestava, pacificamente e coloratamente, poi di colpo, con l'avvento dell'inverno e l'approssimarsi delle pagelle, tutto si calmava, apparentemente. Dopo quelle dei grandi, infatti, altre manifestazioni, occupazioni, scioperi bianchi, assemblee generali per piani (che amavo di più perché più produttive) si facevano durante l'anno, per la mancanza di studi di informatica, per la mancanza di uno studio serio delle lingue straniere, o per il problema dei professori/professionisti, troppo anziani e affaccendati nel loro autocontrollo del posto di lavoro, ecc, ma di quelle nessuno si occupava.
Se gli studenti fossero calmi e lucidi avrebbero già capito da un pezzo che il futuro non glielo ruba la Gelmini, pur autrice di un testo assurdo, soprattutto nei confronti delle scuole elementari, ma glielo hanno già rubato anni fa molti degli adulti al cui fianco marciano con tanta convinzione (e non è un caso che marcino assieme gente di destra e di sinistra, professori e genitori).
Il governo non è certo innocente, ma coloro che aizzano bambini e ragazzi contro le misure del governo non la raccontano giusta. Se davvero avessero a cuore il futuro dei nostri giovani si batterebbero come leoni per "tagliare i rami secchi e rendere gli studi molto più seri, più rigorosi, più profondi". Perché nelle scuole superiori venga cancellato il par-time dei professori, perché anche il professore sia costretto alla ricerca, a scuola, ma sia anche dotato di un luogo degno dove poterla fare (ricordo le aule professori della mia scuola, dove docenti di italiano si trovavano un'ora o qualche minuto a fianco a docenti di fisica, poi quelli di matematica con quelli di inglese e via dicendo. Che ricerca potevano produrre se non la ricerca del risultato della squadra del cuore il lunedì e il giovedì, se non chiacchiarare dei propri figlie e dell'aspetto comportamentale, non disciplinare, dei ragazzi).

Lo smarrimento e l’angoscia di questa generazione che puntualmente ogni anno protesta sono smarrimenti genuini e pienamente comprensibili, ma sono anche il frutto della superficialità con cui gli adulti hanno permesso la distruzione della scuola e dell’università.
I dottorati di ricerca sono allo sbando, la ricerca non interessa a nessuno, della condizione reale di ricercatori, assegnisti, borsisti, cultori della materia, a nessuno interessa, e quel che è peggio tra un ricercatore neo professionista e un neo professionista, diciamo normale, normalmente si preferisce il secondo.

Chiudo facendovi leggere due punti di un lungo comunicato di alcuni dottorandi e dottori del Politecnico di Milano, sulla scia delle proteste di questi giorni.


Crediamo che la lotta da fare, come dottorandi e dottori in architettura e in composizione architettonica in particolare, sia, innanzitutto, proprio di pretendere che venga riconosciuta l’utilità sociale e collettiva del nostro livello di formazione, aprendo la discussione al carattere che devono assumere i dottorati di ricerca, nei quali convivono ricerche su questioni di architettura (il grado di avanzamento dei temi del progetto stilistico moderno) sia ricerche di carattere monografico biografico, sia ricerche con un taglio più teoricoo concettuale, accanto ad applicazioni di carattere seminariale che si prestano come contributi per le trasformazioni possibili di determinati territori.

[...]

Sempre sotto l’aspetto della “produttività” del nostro campo di ricerca può essere utile dare uno sguardo a cosa sono i dottorati all’estero e in specie in alcune università degli USA: in primo luogo va tenuto presente che lì i corsi di laurea durano quattro anni in media, e che dopo la laurea è possibile accedere a dottorati e master. Fin qui tutto come in Italia, con la differenza che il dottorato prevede due anni iniziali di corsi abbastanza intensi da frequentare per iniziare a orientarsi, seguiti da un periodo – che, in media, si aggira intorno ai cinque anni, per un totale di sette anni – durante il quale si porta avanti la ricerca vera e propria. I dottorandi di solito fanno da tramite tra insegnanti e studenti organizzando gruppi di lavoro e seminari, e anche in questo caso si può riscontrare qualche analogia con l’Italia. Un punto interessante riguarda le opportunità di lavoro: dovendo scegliere tra un candidato in possesso di master o di dottorato, un selezionatore aziendale preferisce spesso il primo perché privo di quella formazione avanzata di cui dispone il dottore di ricerca e che lo rende – per l’imprenditore – troppo costoso per avere voglia di assumerlo, dal momento che lo stipendio che dovrebbe corrispondergli dovrebbe
[attenzione dovrebbe...] essere piuttosto elevato.

Come si può notare, sia in un caso – l’Italia, dove la ricerca si taglia– che nell’altro – gli USA, dove la ricerca è già prevalentemente privata ma dove esistono centri di ricerca di prim’ordine – chi dispone di una formazione avanzata costata anni di fatica e sacrifici non ha alcuna certezza che i suoi sforzi verranno ricompensati e che venga riconosciuto al suo lavoro quel carattere di utilità sociale e collettiva che gli spetta. Questo anche per sgombrare il campo dal luogo comune secondo il quale un Ph.D. anglosassone trova lavoro dovunque si presenta; non è esattamente così, secondo la tendenza che sta prevalendo.

Di esempi se ne potrebbero fare molti, da lavori fatti in collaborazione con amministratori siano essi di destra e o di sinitra di enti locali, comuni e provincie, finiti in niente, in una stretta di mano (se va bene), a amministratori pubblici e privati che per quieto vivere preferiscono non dar lavoro, perché di questo si tratta, a giovani che loro stessi hanno voluto formare, o almeno questo vogliono far credere. I ragazzi finché sono ragazzi, manifestano ogni tanto, cantano ballano, suonano al nostro fianco (e lo dico per averlo più volte sperimentato!!!), ridono, gridano, ecc, fanno il nostro gioco, quando pensano, progettano, studiano finalizzando lo studio al lavoro allora di colpo diventano nemici, o comunque non più così amici.

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