venerdì 4 gennaio 2008

Un parco Archeologico per Milano

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Spesso nelle città gli architetti si trovano a dover progettare in situazioni complesse, dense di vincoli, e tuttavia non è la frequenza di questa situazione ciò che mi «ha spinto ad assumerla come terreno di lavoro: è invece la sua natura, il suo carattere didattico, il suo aspetto teorico. Vogliamo lavorare sopra e accanto a dei manufatti, perché pensiamo di poter apprendere in modo diretto dalla loro realtà e dalla loro storia, traendone in modo concreto gli elementi del mestiere»[1]. Perché gli edifici antichi portano con se, dentro il loro corpo e la loro forma, un sapere e un’esperienza antichi con cui l’architetto deve confrontarsi e da cui il progetto può ripartire.

Ridefinire la forma degli scavi archeologici, anche in una città apparentemente poco archeologica come Milano, capire dove proseguirli, e se essi possono attraverso la forma evocare una nuova città, è compito difficile che dovrebbe coinvolgere sia gli archeologi che gli architetti. La continuità nei confronti della rovina non può essere ottenuta con interventi chirurgici, o con logiche di «musealizzazione» dei siti archeologici, ma approfondendo le possibilità evocative del locus.
L’area del circo romano e dell’ex Monastero Maggiore hanno grande valore monumentale, ma sono anche aree di sicura vocazione museale e luoghi di un possibile progetto. La scuola di architettura di Milano si è confrontata spesso sul tema dell’antico circo, con una serie di progetti che tendevano a rendere riconoscibili i frammenti nella loro autonomia e a ridare valore a una trama nascosta della città. E ridefinendo la forma degli scavi e attuando una politica seria su questi e sui ritrovamenti, che quotidianamente si fanno a Milano, arrivare a strutturare una sorta di museo archeologico aperto, di luogo della memoria della città antica, dove la rovina non va vista come punto di arrivo, ma come punto di partenza del progetto. Un progetto dove il manufatto antico da un lato può apparire «come una forma perduta, finita, caduta appunto in rovina, isolata, estranea alla vita quotidiana, dall’altro lascia apparire invece con evidenza la sapienza costruttiva, la coerenza dei mezzi, delle tecniche, dei materiali, esercitata, ecc., il suo essere cioè ancora, “lezione di architettura”»[2].

[1] DANIELE VITALE, ANGELO TORRICELLI, Progettare un edificio accanto ad un altro, testi e bibliografia 1, Facoltà di Architettura del Politecnico di Milano, Milano, 1994, p. 5.

[2] GIORGIO GRASSI, Un parere sul restauro, in GIORGIO GRASSI, I progetti, le opere e gli scritti, introduzione di Juan José Lahuerta, a cura di Giovanna Crespi e Simona Pierini, Documenti di Architettura, Electa, Milano, 1996, p. 406.

Testo estrapolato da FABIO PRAVETTONI, Archeologia e forma urbana. La zona del Monastero Maggiore a Milano, relatore prof. Daniele Vitale, Tesi di dottorato in Composizione architettonica, XVIIi ciclo, Politecnico di Milano, 2006.

Il progetto in alto è di Maria Grazia Lo Castro, Paolo Lombardi e Federico Panfili, Progetto per l’ampliamento del Museo Archeologico. Fronte e sezione su via Ansperto, tesi di Laurea relatore prof. G.Grassi.

1 commento:

Anonimo ha detto...

Credo che il punto sia nel come assumere come progetto anche parte dell'architettura a cui ci andiamo ad affiancare. Il recupero del teatro di Sagunto di Grassi, che hai messo nella foto penso sia esemplare per questo aspetto ed è uno dei suoi migliori progetti. E' triste sapere che verrà demolito...